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VLADIMIR PUTIN PRESIDENTE RUSSIA
Nella Russia contemporanea, segnata dalla guerra d’invasione all’Ucraina e da una mobilitazione ideologica capillare, la figura del cosacco è tornata a occupare uno spazio centrale. Non solo nelle parate militari o nei racconti patriottici, ma nella vita quotidiana: pattuglie in uniforme pattugliano le strade accanto alla polizia, presenze visibili durante cerimonie religiose, eventi sportivi, manifestazioni pubbliche. Un ritorno che dice molto del rapporto tra potere, tradizione e violenza simbolica nella Russia di Vladimir Putin.
Il cosacco non è più soltanto un residuo folkloristico o un richiamo nostalgico all’epoca zarista; è diventato uno strumento politico attivo. Dopo essere stati repressi e marginalizzati nel periodo sovietico — puniti per la loro fedeltà allo zar Nicola II durante la Rivoluzione del 1917 — con l’implosione dell’Urss nel 1991 vengono progressivamente riabilitati. Da allora, il reinserimento è avvenuto in modo graduale ma inesorabile, fino a trasformarli oggi in una delle colonne ausiliarie dello Stato russo.
Storicamente, i cosacchi erano comunità di cavalieri seminomadi insediate nelle pianure dell’attuale Ucraina e della Russia sud- occidentale. Con l’espansione dell’Impero russo nel XVIII secolo divennero sudditi fedeli dello zar e pilastri dell’esercito imperiale. I guerrieri più devoti e più coraggiosi, ammirati dal popolo russo e temuti dai loro nemici. Il loro status, tradizionalmente ereditario, se si dimostrava il giusto valore poteva essere acquisito anche per via amministrativa, mediante registrazione presso le autorità.
La presidenza di Boris Eltsin, in un contesto di profonda crisi della macchina statale segnato dal dominio delle mafie sull’economia nazionale, dalla criminalità dilagante, assiste a una rinascita cosacca disordinata e talvolta conflittuale. Alcuni gruppi rivendicavano autonomia e identità etnica, altri si proponevano come forza di coesione sociale attaccando duramente le politiche di Eltsin e la deriva che stava attraversando la società russa. Fu proprio questo potenziale ambiguo, quasi “revan scista” che ha convinto le autorità a intervenire nei primi anni duemila, proprio dopo l’arrivo di Putin al Cremlino: meglio integrare che reprimere. Le funzioni dei cosacchi vengono così istituzionalizzate, affidando loro compiti di sorveglianza, controllo del territorio e supporto alle forze dell’ordine.
Accanto a questo ruolo formale, se ne è consolidato un altro, più sfumato ma altrettanto rilevante nella cultura nazionale: quello di custodi della morale e delle tradizioni. I legami strettissimi con la Chiesa ortodossa, la religiosità profonda e antimoderna rafforzano la loro immagine di difensori dell’“anima russa” contro un blocco occidentale dipinto come decadente. Episodi come l’aggressione alle Pussy Riot durante le Olimpiadi di Sochi del 2014 mostrano come questo ruolo da polizia morale possa tradursi in violenza fisica, una violenza tollerata, se non tacitamente incoraggiata, dallo Stato.
La guerra in Ucraina ha dato nuovo impulso a questa dinamica. La militarizzazione della società russa, già avanzata prima del 2022, si è intensificata con il protrarsi del conflitto. Per evitare una mobilitazione generale impopolare, il Cremlino fa sempre più affidamento su strutture paramilitari e su forme di volontariato armato. I cosacchi sono presenti al fronte in battaglioni dedicati, ma svolgono anche un ruolo nelle retrovie, organizzando raccolte di beni e sostegno logistico per i combattenti.
Un aspetto particolarmente significativo è rappresentato dai Corpi dei cadetti cosacchi. Queste scuole specializzate combinano l’insegnamen to del curriculum nazionale con una forte impronta militare e identitaria: storia della cosaqueria, addestramento fisico, uso delle armi, disciplina collettiva. L’obiettivo non è soltanto formare soldati, ma plasmare cittadini leali, pronti a concepire il servizio armato come destino naturale. La creazione di Corpi dei cadetti nei territori ucraini occupati — come Lugansk e Donetsk, e in prospettiva Zaporijia e Kherson — rivela una strategia che va oltre l’emergenza bellica. Si tratta di un progetto di lungo periodo, volto a radicare il controllo russo attraverso l’educazione, la socializzazione militare e l’imposizione di simboli e rituali statali.
In questo senso, i cosacchi diventano vettori di una colonizzazione non solo territoriale, ma anche culturale. Nel discorso pubblico di Vladimir Putin, i cosacchi incarnano il modello della “nuova élite russa”, chiamata a sostituire tecnocrati e oligarchi giudicati corrotti e privi di valori. Le qualità esaltate sono quelle marziali: disciplina, obbedienza, spirito di sacrificio e fedeltà allo Stato. Tuttavia, dietro questa immagine compatta emergono segnali di fragilità. Il recente calo nel numero di cosacchi registrati, unito alle perdite subite nei combattimenti contro l’esercito di Kiev, suggerisce un possibile affaticamento e un primo disincanto rispetto al ruolo di ausiliari permanenti del potere.
C’è poi un paradosso: l’identità cosacca non infatti è monopolio esclusivo di Mosca. Dall’altra parte del fronte, nelle file dell’esercito ucraino, combattono cosacchi che rivendicano la stessa eredità storica. Ciò dimostra come la cosaccheria resti una tradizione contesa, difficile da ridurre a strumento univoco di propaganda. In questo spazio di ambiguità si gioca forse uno dei limiti del progetto imperiale del Cremlino: l’impossibilità di controllare completamente una memoria storica che, per sua natura, nasce ai margini del potere centrale.


