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A woman hides from pigeons as she throws corn to feed them in the old part of Sarajevo, Bosnia, Wednesday, Nov. 19, 2025. (AP Photo/Armin Durgut)
Le prime indiscrezioni sui contenuti del piano per la pace di Trump per l’Ucraina – arrivato a poche settimane dal piano per la pace a Gaza – sono giunte alla vigilia del 30esimo anniversario degli accordi di Dayton del 21 novembre 1995, che posero fine alla guerra in Bosnia.
L’anniversario inoltre giunge in concomitanza con l’inizio delle indagini da parte della Procura di Milano sul presunto caso dei “turisti cecchini” che si sarebbero recati a Sarajevo durante l’assedio della città da parte dei nazionalisti serbi, pagando ingenti somme per poter sparare sui civili.
Le 165 pagine corredate da 12 allegati e 102 mappe sancirono la nascita della Bosnia Erzegovina come Stato caratterizzato da divisioni etniche ben precise e due entità autonome: la Federazione Croato-musulmana – che occupa il 51% del territorio bosniaco – e la Republika Srpska (RS) – il restante 49%. A queste due entità si aggiunge il distretto di Brcko, che interrompe la continuità territoriale della RS, politicamente autonomo e slegato dalle due entità. Tra i firmatari degli accordi, per la parte serba, c’era Slobodan Milošević, nei cui confronti venne emesso il primo mandato internazionale di cattura per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di un capo di Stato in carica.
Gli accordi congelarono la linea del fronte, di fatto legittimando le conquiste territoriali e la pulizia etnica perpetrata dai nazionalisti serbi nei confronti dei bosgnacchi e permisero il dispiegamento delle forze internazionali che avrebbero dovuto vigilare sul rispetto degli accordi, il ritorno dei profughi e lo svolgimento delle elezioni sotto supervisione della missione Onu UNMIBH (United Nations Mission in Bosnia and Herzegovina). L’allegato n.10 degli accordi di Dayton creò la figura dell’Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina – carica ora ricoperta dal tedesco Christian Schmidt – deputato alla supervisione dell'implementazione delle condizioni previste dagli accordi di pace e alla rappresentanza dei Paesi coinvolti nel processo di pacificazione, tra cui anche l’Italia. Nel 2008 sono state poi definite le condizioni per la soppressione della carica come parte del processo di normalizzazione della Bosnia Erzegovina. Il fatto che 17 anni dopo l’Alto rappresentante sia ancora in funzione indica come il processo sia complesso.
Durante la commemorazione degli accordi, tenutasi a maggio a Dayton, il capo della delegazione Usa Mike Turner ha dichiarato che «con i nostri partner della NATO e la leadership nei Balcani, ci siamo uniti e gli accordi di pace di Dayton sono nati come un principio di pace che è rimasto unito per 30 anni in una struttura ancora fragile». La pace stipulata con gli accordi di Dayton è considerata dai bosgnacchi una «continuazione della guerra con altri mezzi» che non ha creato ostacoli allo sviluppo economico e sociale del Paese consolidando le divisioni etniche invece che superarle.
Gli accordi firmati in Ohio infatti hanno finito per creare un’etnocrazia, ossia «un sofisticato apparato statale fondato sul rispetto dell’uguaglianza dei tre popoli costituenti: bosgnacchi, croati e serbi», come definita da Giorgio Fruscione, Research Fellow dell’Ispi. Le tre etnie costituenti vengono rappresentate a livello governativo da tre presidenti che si alternano in cicli di otto mesi ciascuno alla presidenza secondo il principio del “primus inter pares”.
L’architettura amministrativa creata dagli accordi di Dayton impedisce a un cittadino che non si identifichi in nessuno dei tre maggiori gruppi etnici di poter essere eletto presidente, generando un evidente pregiudizio per i cittadini bosniaci di etnia ebrea, albanese, italiana, montenegrina o delle altre 13 etnie riconosciute. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nell’ambito della causa Sejdić e Finci v. Bosnia ed Erzegovina del 2009 ha dichiarato che la nozione di “popolo costituente” e in particolare la sua accezione politica rappresentano una discriminazione nei confronti degli altri gruppi etnici presenti nel Paese.
Quest’anno la tenuta della pace e la stessa integrità territoriale della Bosnia Erzegovina sono state messe a rischio dalle azioni del presidente della RS, Milorad Dodik. Molto vicino a Mosca e Belgrado, il leader ha dichiarato in più occasioni di voler separare la
RS dalla Bosnia perseguendo la dottrina della Grande Serbia.
Il 26 febbraio il Tribunale della Bosnia Erzegovina lo ha condannato a un anno di reclusione e 6 anni d’interdizione dai pubblici uffici per aver ignorato le decisioni dell’Alto rappresentante Schmidt e aver promulgato due leggi approvate dall’Assemblea popolare della RS: la legge sulla non applicabilità delle decisioni della Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina e la legge sulle modifiche alla legge sulla pubblicazione delle leggi e degli altri atti normativi della RS.
A marzo i procuratori bosniaci hanno emesso mandati d’arresto per Dodik e per altri due funzionari: il primo ministro Radovan Višković e il presidente dell’assemblea nazionale Nenad Stevandić. Dati la crescente tensione politica e interetnica, sempre a marzo l’Ue ha deciso di dispiegare truppe aggiuntive in Bosnia nell’ambito della missione Eufor. E la tensione ha raggiunto livelli preoccupanti ad aprile quando la polizia di Stato bosniaca ha provato ad arrestare Dodik ma è stata bloccata dalla polizia della RS con le armi in pugno.
Ad agosto, quando la sentenza è stata confermata in appello, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha dichiarato che la Serbia non riconosce la sentenza contro Dodik in quanto «antidemocratica» e che «Milorad Dodik è benvenuto in Serbia». La vicenda si è conclusa con un passo indietro di Dodik che ad ottobre ha rinunciato a ricandidarsi per le elezioni anticipate in RS, che si terranno domani. Al suo posto è stata nominata presidente ad interim della RS Ana Trišić-Babić.
La pace regge ma è segnata da crepe profonde che rischiano d’allargarsi e non sono da escludere eventuali recrudescenze del conflitto che negli anni Novanta riportò la guerra in Europa. Mancano riforme strutturali, dialogo fra le diverse etnie che compongono il variegato panorama bosniaco e la volontà politica di trovare un’unità nazionale; inoltre l’architettura disegnata dagli accordi di Dayton ha finito per bloccare il processo decisionale e ha privilegiato i partiti nazionalisti, gli stessi che hanno condotto la Bosnia in guerra 33 anni fa.
Allo stesso modo, i piani di pace proposti dagli Usa per fermare prima il conflitto a Gaza e poi la guerra in Ucraina rischiano di mettere in pausa soltanto i combattimenti, di seppellire un fuoco ancora accesso per trasformarlo in un “incendio zombie”, che continua a bruciare sotto la superficie, pronto a divampare con rinnovato vigore.


