La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 68/ 2025 non rappresenta certo una novità e per contenuti e ragioni si è mantenuta nella continuità di una parte della giurisprudenza formatasi per dichiarare la propria opposizione al divieto della registrazione in Italia di nati a seguito di una procedura procreativa compiuta all’estero, secondo le regole di quel paese, e vietata nel nostro paese.

Diversamente da quanto temono i conservatori la sentenza non rappresenta certo una breccia verso il contratto di maternità. Di fatto non viene legittimato un diritto a procreare comunque. Rimane un illecito sia il ricorso alla fecondazione eterologa da parte di coppie dello stesso sesso prevista dalla legge 40, sia la gestazione per altri nei cui confronti la Corte in questi anni ha mostrato forte contrarietà.

Il problema sottoposto all’attenzione della Corte riguarda pertanto l’interesse del figlio nato in Italia da PMA praticata all’estero a che sia affermata in capo ad entrambe le donne che abbiano fatto ricorso a questa tecnica, la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali all’interesse del minore che l’ordinamento ritiene inscindibilmente legati alla scelta di divenire genitori. Pertanto, le censure del giudice rimettente devono intendersi riferite al solo art. 8 della legge 40 del 2004.

Questo articolo viene dichiarato dalla Corte illegittimo nella parte in cui non prevede che il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita abbia lo stato di figlio riconosciuto anche della donna che, del pari, ha espresso il preventivo consenso al ricorso alle tecniche medesime e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale.

La dichiarazione di illegittimità si fonda sulla violazione di alcuni principi normativi e costituzionali. Fondamentale il “migliore interesse del minore”, considerato che nella fattispecie è violata la sua identità personale e il suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile. La centralità dell’interesse del minore implica l’unicità dello stato di figlio, quale principio ispiratore della riforma della filiazione, introdotta nel biennio 2012- 2013, compendiato dal nuovo art. 315 c. c. per cui «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico». “In forza di tale principio - scrive la Corte - tutte le forme di filiazione riconosciute dal nostro ordinamento (all’interno del matrimonio, fuori del matrimonio, adottiva nelle sue varie forme) godono della medesima considerazione, con riferimento sia alle situazioni giuridiche soggettive imputate al figlio (art. 315- bis c. c.), sia alla sua posizione nella rete formale dei rapporti familiari (art. 74 c. c.)”.

Si deve inoltre in queste situazioni considerare che l’interesse superiore del minore si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis validamente riconosciuto all’estero. Si sottolinea appunto come il mancato riconoscimento della filiazione, già avvenuto in altro paese, determinerebbe una situazione giuridica claudicante, un rilevante ostacolo per il rispetto dell’identità personale del minore.

L’interesse del minore implica altresì per la Corte che siano riconosciuti, sin dalla nascita gli obblighi dei genitori connessi alla genitorialità, una responsabilità dalla quale nessuno dei due genitori, in particolare la cosiddetta madre intenzionale, può sottrarsi. «Tale responsabilità - scrive la Corte - e gli obblighi ad essa correlati si giustificano proprio alla luce della riconducibilità della nuova vita alla volontà di coloro che intraprendono il percorso genitoriale; volontà che nel caso della procreazione diversa da quella naturale, si svela e si esprime attraverso il ‘ consenso’ prestato al ricorso alle tecniche di PMA».

Questi principi erano stati già in anni precedenti ampiamente utilizzati in contrapposizione al divieto posto dal governo di trascrizione all’anagrafe del nato come figlio della coppia genitoriale che si era avvalsa del contratto di maternità e che aveva ottenuto tale status nel paese straniero. Il progetto era quello di disincentivare l’ipotesi di una procreazione all’estero proibita in Italia, anche a costo di ledere il miglior interesse del minore.

Nel 2023, come ricorda Francesca Spasiano nel Dubbio del 22 maggio u. s., con una circolare il Viminale aveva chiesto ai prefetti di impedire ai Comuni il riconoscimento di queste famiglie e la trascrizione dei nati. Ne conseguiva anche che alcune procure avevano chiesto la cancellazione della trascrizione dei precedenti atti di nascita già avvenuta. È un periodo in cui le sentenze di segno opposto si sovrappongono e la situazione, comunque incerta, rimane in mano ai Comuni. Peraltro è da chiedersi come potesse il governo di uno Stato, che professa in linea con la Costituzione la tutela dei minori come una priorità, immaginare che dei bambini potessero patire un cambio di status, un fratello e una mamma che nella forma smettono di essere famiglia.

Andando a leggere le sentenze emanate dalle corti a favore della registrazione e quindi dello status di figlio acquisito all’estero, i principi etici e giuridici in discussione sono di fatto molti di quelli che sono oggi portati avanti dalla sentenza della Corte costituzionale. Fra questi in discussione troviamo appunto l’interesse del minore che ha una posizione di prevalenza sull’ordine pubblico.

Fin da allora per diverse sentenze la registrazione di un bambino con due madri, nato a seguito di surroga in un paese che lo consente, non violava certamente principi di ordine pubblico. «Nel quadro di principi testé delineati - scrive oggi la Corte - il carattere omosessuale della coppia che ha avviato il percorso genitoriale in questione non può costituire impedimento allo stato di figlio riconosciuto per il nato. L’orientamento sessuale infatti non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali (sentenza n. 32/ 2021), né incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 33/ 2021)».

Marcata, invece, è la presenza di un vulnus rispetto al quadro normativo esistente dato dalla insussistenza di un contro interesse tale da giustificare un bilanciamento rispetto all’interesse del minore a vedersi riconosciuto automaticamente e fin dalla nascita lo status di figlio anche della madre intenzionale.