Nessuno poteva immaginare che si sarebbe arrivati così presto ad una confusione di piani tra giustizia in toga e giustizia con il microfono in mano. Come si sa, un autorevole magistrato al vertice di una grande Procura come quella di Napoli, il dott. Nicola Gratteri, molto stimato anche per i suoi risultati investigativi nella lotta alla criminalità organizzata, ha accettato di condurre personalmente un programma televisivo in quattro puntate intitolato “Lezioni di mafia”.

Evidentemente il luccichio del piccolo schermo esercita un grande fascino sino al punto da indurre a conquistarlo quasi fosse una appendice naturale delle indagini penali. Difficile però non rimanere con il fiato sospeso davanti ad una simile svolta che annuncia l’abbandono delle formule astruse del legalese per l’adozione di un modello di comunicazione più sciolta.

Si rimane però con il capo tra le mani nella lettura del titolo dato alla futura trasmissione televisiva. C’è infatti un evidente infortunio nell’uso della lingua italiana. Nessuno ha mai sentito uno studente di giurisprudenza confidare ai compagni: “Ieri sono stato a lezione di violenza privata e di omicidio”. Non si insegnano i reati, ma i modi per combatterli. Le condotte del codice penale descrivono divieti di trasgressione dei valori di civile convivenza. E dunque l’oggetto dell’insegnamento è costituito dall’insieme delle forme e delle sanzioni stabilite per reprimere il crimine.

L’incauto titolista ha insomma invertito i poli della pedagogia penalistica come se il vero obiettivo non fosse proprio quello di difendere le regole della nostra comunità sociale, ma di promuovere l’attenzione solo sull’agire della illegalità mafiosa.

Al di là della erronea intitolazione, c’è un grave problema che investe l’estetica della giustizia. Nella sua sede naturale, il processo penale garantisce e manifesta all’esterno il rispetto della presunzione di innocenza e della legalità probatoria nell’accertamento dei reati. Niente di tutto questo esiste quando una vicenda giudiziaria viene inghiottita dal circuito mediatico, in particolare da quello televisivo. La finalità della narrazione di fatti criminosi diventa quella definibile in termini di spettacolo della colpevolezza.

La responsabilità penale è presunta e i fatti sono raccontati utilizzando ampiamente congetture e illazioni. L’importante è acquisire share, vale a dire attrarre e aumentare la fascia dei telespettatori che seguono l’intera puntata e che si ripresentano all’appuntamento con le prossime, ormai fidelizzati fino in fondo.

Come fa un magistrato, pur esperto e autorevole, a non farsi travolgere dall’onda di un impegno narrativo che mette in primo piano non già la ricerca della verità sui fatti illeciti, ma la promozione di una audience sempre più appassionata alla rappresentazione di storie criminali come se uscissero fuori da una sequenza cinematografica? Quando il Procuratore di Napoli si troverà a condurre il suo programma sulla mafia non potrà esibire uno stile distaccato e asettico come quello congeniale ad una lezione universitaria di diritto penale o di criminologia. Sarà invece costretto dalla regia a far vibrare le corde del fervore partecipativo di chi è seduto davanti allo schermo.

Una tv commerciale non può permettersi di mandare in onda programmi compassati e scoloriti che penalizzano il livello di ascolto. Del resto, il magistrato abituato ad essere ascoltato nelle udienze in religioso silenzio si troverebbe invece di tanto in tanto con la lingua tagliata dagli inserti pubblicitari. Una televisione estranea al servizio pubblico non può certo rinunciare alle ghiotte proposte degli inserzionisti che vogliono essere presenti in un programma dominato dalla figura ieratica di un magistrato così famoso. E di conseguenza le vicende di mafia finirebbero per essere raccontate negli spazi lasciati liberi dalla presentazione di nuovi biscotti al gusto travolgente o di auto eleganti dallo sprint fulmineo.