L’articolo pubblicato sul Dubbio il 6 novembre, firmato da Errico Novi, dedicato alle intercettazioni emerse durante le indagini sull’allora presidente del Tribunale delle misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, offre uno spunto di riflessione che va ben oltre il singolo caso.

Riporta al centro dell’attenzione un tema cruciale e spesso ridotto a sterile scontro ideologico: la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti.

Molti, cittadini potrebbero chiedersi che nesso ci sia tra il dibattito in corso sulla necessità di separare le carriere di pubblici ministeri e giudici carriere e il procedimento di prevenzione, quello strumento che consente di disporre sequestri e confische dei beni nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, anche in assenza di condanna penale.

Eppure, è proprio nelle misure di prevenzione che si manifesta con la massima evidenza la confusione di ruoli che la riforma della separazione delle carriere mira a superare ed eliminare. Nel procedimento di prevenzione, infatti, la distinzione tra pubblico ministero e giudice è di fatto inesistente e la sovrapposizione tra i due ruoli evidente.

Il fascicolo del proponente, di solito Procura o Questore, viene trasmesso direttamente al Tribunale, che lo utilizza come base della decisione finale. Non c’è un “doppio fascicolo”, come nel processo penale ordinario, dove l’attività di indagine resta separata dalla fase del giudizio.

Qui, invece, il giudice valuta e decide sullo stesso materiale raccolto dall’organo proponente, senza filtri, senza una netta cesura tra la fase investigativa e quella decisoria.

Ma non è tutto. L’articolo 19 del Codice antimafia – che disciplina il procedimento di prevenzione – attribuisce al Tribunale poteri istruttori amplissimi, consentendogli di agire anche di propria iniziativa: può disporre accertamenti, chiedere nuove indagini, sollecitare approfondimenti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria.

In altre parole, il giudice non si limita a valutare ciò che le parti portano davanti a lui, ma diventa protagonista dell’attività istruttoria, fino a sostituirsi, di fatto, al pubblico ministero. È persino previsto che possa restituire gli atti al proponente, indicando quali ulteriori accertamenti ritiene opportuni perché la misura possa essere accolta.

Si tratta di un potere che, per ampiezza e natura, nega in radice il principio di terzietà del giudice, cardine del giusto processo sancito dall’articolo 111 della Costituzione.

Nel processo penale ordinario, la riforma del 1988 – la cosiddetta “riforma Vassalli” – aveva segnato la fine del modello inquisitorio, restituendo equilibrio tra accusa e difesa davanti a un giudice terzo e imparziale.

Nel procedimento di prevenzione, invece, sopravvive un sistema ancora fortemente inquisitorio, dove il giudice si muove insieme al pubblico ministero, spesso condividendone la prospettiva investigativa e anticipando il giudizio di merito già nella fase preliminare.

Non stupisce, dunque, che la Corte Costituzionale sia stata recentemente investita della questione di legittimità dell’articolo 19, proprio nella parte in cui consente al Tribunale di sostituirsi al pubblico ministero nella conduzione dell’attività istruttoria. La vicenda, portata all’attenzione della Consulta da un ricorso presentato da un componente dell’Osservatorio sulle misure di prevenzione dell’Unione delle Camere penali, mette in luce una contraddizione ormai insostenibile: nel procedimento di prevenzione, il giudice non solo non è terzo, ma esercita un potere che travalica ogni confine tra funzione requirente e funzione giudicante. Questa commistione non è un dettaglio tecnico, ma un vulnus profondo al principio di legalità processuale ed al diritto di difesa.

Se un giudice può attivarsi, disporre accertamenti, suggerire indagini e poi valutare gli stessi risultati che ha contribuito a ottenere, la garanzia di imparzialità è solo formale. E se questa dinamica è consentita in un settore così delicato come quello delle misure patrimoniali e personali, la necessità di separare le carriere diventa ancora più evidente. Il dibattito sulla riforma non può dunque limitarsi alla dimensione teorica o ordinamentale.

Il procedimento di prevenzione mostra in concreto cosa accade quando l’accusa e il giudice condividono la stessa funzione di “ricerca della verità” e la stessa prospettiva investigativa.

La conseguenza è un sistema in cui la presunzione di innocenza e la parità delle parti vengono meno, e in cui la figura del giudice, anziché essere garante di equilibrio, finisce per diventare parte attiva del procedimento.

Separare le carriere non è, dunque, una bandiera di categoria, ma una garanzia di civiltà giuridica.

Proprio le misure di prevenzione, nate come strumento straordinario di tutela collettiva, dimostrano quanto sia fragile l’equilibrio dei poteri quando i confini tra accusa e giudizio si confondono. E quanto più urgente sia restituire al giudice la sua funzione originaria: quella di arbitro terzo, non di protagonista dell’azione penale.