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Sarebbe stato un bel gesto, ma non lo hanno fatto. Sarebbe stato un bel gesto, da parte dei manifestanti per il Centro sociale Leoncavallo, luogo di arte, cultura e fantasia, portare un omaggio a un grande imprenditore di arte, cultura e fantasia, ricordato dai suoi dipendenti in lacrime, come è stato Giorgio Armani. Si sono incrociate nella stessa città, Milano, e nella stessa giornata di sabato, le due manifestazioni.
Al “signor Giorgio” le lanterne appoggiate sul terreno, le rose bianche più belle, quelle leggermente screziate di pallido verde, e una folla muta di cittadini che non sono gli stilisti modaioli (che non c’erano), ma l’immagine della Milano più vera. E prima di tutto i “suoi” lavoratori, quelli cui lui ha dato attenzione fino all’ultimo, con una corsia preferenziale per andare a salutarlo, e che ora non si capacitano per non averlo più al loro fianco. In questa immagine di un grande creatore di moda, di un illuminato datore di lavoro nello stile di un altro grande quale Adriano Olivetti, la mano tesa degli altri manifestanti ci sarebbe stata proprio bene.
Ma forse i venticinquemila che nel pomeriggio del sabato settembrino che ha segnato la fine dell’estate hanno manifestato la loro solidarietà al Leoncavallo, non erano proprio lì per la cultura e l’arte. Per salvare per esempio quei murales ricchi di graffiti che l’assessore Vittorio Sgarbi aveva paragonato alla Cappella Sistina. O per ricordare il fatto che tanti giovani frequentavano quel Centro sociale per i concerti e per i dibattiti e non come luogo di illegalità ed estremismo. Cosa che il Leoncavallo era stato ma che, a detta di tutti, ormai non era più.


Le due lunghe fila di donne e uomini e tanti giovani, alcuni con la maglietta nera girocollo preferita dal “signor Giorgio”, che hanno sfilato in silenzio, e nei due giorni sono arrivate alla cifra di sedicimila, non erano penitenti dietro a un feretro. Erano un simbolo significativo della Milano del lavoro, del progresso e delle opportunità, e anche della più importante impresa italiana, quella della moda, esportata nel mondo, di cui Armani è stato il numero uno.
Ma anche di quella borghesia colta che negli ultimi quindici anni si è sentita schiacciata tra un programma di “rigenerazione urbana” che ha proiettato Milano nei vertici dell’Europa, e la perdita di sé, della milanesità. Una parte di questa borghesia, quella del salario fisso e insufficiente ai nuovi costi della vita metropolitana, se ne è dovuta andare. E probabilmente una parte di loro sabato non era da Armani, ma partecipava al folto corteo che occupava l’intero centro, per difendere uno spazio di libertà, “contro i padroni delle città”, mettendo insieme il governo Meloni e il sindaco Sala.
Il primo perché, tramite il ministro dell’interno Matteo Piantedosi e il prefetto di Milano, ha fatto sgomberare il centro sociale. Il secondo per il suo “modello Milano”, quello che ha dato spazio allo striscione più spiritoso: “Con Beppe Sala verso il comunismo, più grattacieli per tutti”. E già, l’urbanistica e i suoi grattacieli e l’inchiesta giudiziaria, e le famiglie rimaste senza abitazione, e quel Piano Casa programmato con tanto ritardo e per merito di un ex assessore che non è neanche uno di sinistra ed è caduto per un’intercettazione. Il cortocircuito politico del sabato milanese era garantito fin dai giorni precedenti.
Non per la manifestazione del mattino, quella dei centri sociali che hanno anche occupato il Pirellino, che in tempi remoti ospitava proprio l’assessorato all’urbanistica ed è diventato simbolo dell’inchiesta giudiziaria. Un gesto un po’ scontato, perché anche i giovani non sono più così creativi come lo erano i loro genitori ( o nonni?) degli anni settanta del secolo scorso, con la vernice rosa e lo slogan “occupare è giusto”. Solo l’imprenditore Manfredi Catella, che ha tutte le ragioni per essere un po’ nervoso dopo l’estate di fuoco trascorsa ai domiciliari prima di essere “scarcerato”, ha dato loro un rilievo politico eccessivo. E anche un po’ anacronistico. «Le manifestazioni violente con azioni illegali - ha detto- e le occupazioni abusive da pare dei cortei formati dai centri sociali, con la partecipazione dei rappresentanti di espressioni politiche, rappresentano evidentemente la nuova proposta del cosiddetto modello Milano, che interpreta la democrazia urbanistica invocata da alcuni». Con un cenno alle prossime elezioni del 2027: «L’opinione pubblica potrà scegliere se questa è la Milano che vogliamo».
E’ successo così che l’azione di quattro ragazzi armati di vernice rosa e lo sfogo comprensibile ma fuori tempo e luogo dell’imprenditore che è da mesi al centro dell’inchiesta giudiziaria, hanno creato il famoso cortocircuito politico e messo il silenziatore alla seconda manifestazione, quella cui era presente anche la gran parte dei dirigenti locali del Pd, sia pure senza bandiere di partito, e che pareva destinata a un discreto successo. Perché sono subito spuntati come funghi tutti quelli cui il “modello Sala” non andava giù. Se la sono presa con l’imprenditore non potendo sparare direttamente sul sindaco. Pierfrancesco Majorino, colui che vorrebbe stare sul seggio di Palazzo Marino: “Il dottor Catella farebbe meglio a non chiacchierare su e di Milano… non siamo tutti suoi dipendenti”. E poi il verde Carlo Monguzzi, e Nicola Fratoianni che non c’entra niente con Milano, ma trova il modo di sancire che lui si, non altri, è convinto di “essere dalla parte giusta”. Chissà che cosa è la “parte giusta”.
Forse sarebbe stata quella di chi, uscendo un attimo dal corteo del Leoncavallo, avesse allungato una mano ai sedicimila che salutavano Giorgio Armani. Nello spirito della milanesità, della città che ha sempre dato opportunità a tutti, quella in cui i dipendenti non espongono striscioni “contro i padroni”, ma il padrone lo piangono per quel che ha saputo dare a loro, alla città e al mondo. Questo potrebbe essere il nuovo “modello Milano”, se qualcuno volesse ritrovarlo.