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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Qualcuno nei corridoi di Palazzo lo ha già ribattezzato il “lodo Meloni”, e in effetti la scelta della premier di recarsi alle urne per i prossimi referendum per poi non ritirare le relative schede, può essere intesa, in un certo senso, come un compromesso. Se si tiene conto dei precedenti storici della Prima e Seconda Repubblica, nulla avrebbe infatti impedito alla presidente del Consiglio di comunicare una scelta netta a favore dell'astensionismo, dato il ruolo eminentemente politico che ricopre.
Sul piano teorico, infatti, appaiono più irrituali le parole di Ignazio La Russa, rivestendo quest'ultimo un'altissima carica istituzionale, che prevede in alcuni casi anche la supplenza al Capo dello Stato. Ma proprio se si considera il peso e l'autorevolezza di cui l'inquilino del Quirinale gode presso l'opinione pubblica (confermata anche dall'ultimo rapporto Eurispes, in base al quale Sergio Mattarella e di riflesso la presidenza della Repubblica è l'unica istituzione che resiste alla sfiducia generale nutrita dai cittadini per la politica), la conclusione cui è giunta Meloni, seppure contorta, risulta comprensibile. Il timore della leader del governo, verosimilmente, è quello di entrare in rotta di collisione con Mattarella, il quale ha già lasciato intendere chiaramente – se ve ne fosse stato bisogno – di essere sempre e comunque a favore della partecipazione democratica. Tra gli allarmi più accorati lanciati negli ultimi tempi dal Colle, c'è infatti quello sul progressivo astensionismo come rischio per la democrazia.
Considerando che l'unico, flebile rischio per la maggioranza di andare incontro a una sconfitta clamorosa ai referendum col raggiungimento del quorum potrebbe provenire da una contrapposizione frontale col presidente della Repubblica (unica figura che sovrasta la premier nei sondaggi sul gradimento personale) Meloni ha pensato bene di togliere dal tavolo la parola “astensione” o, peggio ancora, di evitare uscite ruvide come far capire di volersene andare al mare. Anche perché, a essere superstiziosi, i capi dell'esecutivo che hanno invitato alla diserzione delle urne non hanno avuto grande fortuna, a partire da Bettino Craxi, ampiamente celebrato negli ultimi mesi in occasione del venticinquennale dalla morte. Poi ci sono i referendum confermativi, quelli che non hanno bisogno di una soglia minima di partecipazione, che si tengono quando gli elettori vengono chiamati in causa su una riforma costituzionale approvata in Parlamento. e anche su questi, come insegna ciò che è successo a Berlusconi e Renzi, non portano fortuna ai premier. Sfatare questo tabù, quando i quesiti tratteranno di separazione delle carriere, è il chiodo fisso di Meloni.