Non sappiamo se e quanto la decisione assunta dal Tribunale dei ministri su Almasri fosse attesa dal governo. Non sappiamo se e quanto Giorgia Meloni fosse preparata all’idea di un profluvio di affermazioni “censorie” da parte del collegio delle tre giudici a carico di guardasigilli, capo del Viminale e sottosegretario ai Servizi.

Sappiamo però per certo che ora viene la parte più difficile. A dispetto di quanto s’immagina, o si sia finto finora di immaginare. La richiesta di processare l’Esecutivo è, naturalmente, destinata a essere respinta dalla Camera. Ma il difficile viene adesso perché comunque, fino a ottobre, quando l’Aula dovrebbe pronunciarsi sulla richiesta formulata dal Tribunale dei ministri, giornali e note stampa degli avversari gronderanno anatemi contro il governo. E potrebbe non finire lì.

Sia perché non si può escludere in senso assoluto un colpo di scena sulle accuse alla premier, che potrebbero riemergere in virtù dei nuovi esposti già annunciati dalle vittime di Almasri, tanto da richiedere un tempo supplementare nella Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, sia perché non ci sarebbe da meravigliarsi se la Procura di Roma iscrivesse Giusi Bartolozzi a registro degli indagati, sempre sulla base dell’istruttoria condotta dal collegio delle tre giudici. Se insomma finora si è dato per scontato che il caso del militare-torturatore libico non avrebbe interferito con la campagna referendaria sulla separazione delle carriere, ora è il caso di essere un po’ più cauti, in proposito.

E allora, il punto è un altro, estraneo dalla vicenda processuale: tutto sta a capire se gli esponenti del centrodestra, i leader ma non solo, risponderanno al fuoco nemico con l’accusa secondo cui i magistrati consumano, su Almasri, la vendetta per la riforma Nordio. O meglio: finché parlamentari di maggioranza e ministri continueranno a dire questo, come hanno già preso a fare da tempo, non c’è alcun particolare problema. Il pericolo è che il centrodestra cominci a presentare la separazione delle carriere come una soluzione finale contro le ingerenze della magistratura. Ecco: il nodo, il confine sottilissimo da non oltrepassare, se davvero si vuole portare a casa la riforma, consiste nel non spingersi a dire che il centrodestra separa le carriere per punire giudici e pm.

Un simile discorso riprodurrebbe, come la macchina del tempo di Doc Brown in “Ritorno al futuro”, esattamente il clima dell’epopea berlusconiana. Torneremmo al vecchio scontro fatale tra politica e toghe. Col risultato di spaccare l’opinione pubblica, mobilitare ancora di più l’elettorato che non vota centrodestra e rischiare di perderlo davvero, il referendum sulle carriere.

Meloni, da quando ha davvero scommesso sul dossier giustizia, si è sempre ben guardata dall’assimilarsi al Cav. Ci ha tenuto così tanto che, prima di salire a Palazzo Chigi, ha respinto le insistenze dello stesso Berlusconi sulla nomina di Maria Elisabetta Alberti Casellati a guardasigilli. Se vuole arrivare dove Silvio non è riuscito, Giorgia dev’essere diversa da lui. Lo sa, certo. Ma mai come adesso deve tenere i nervi saldi e non cadere in tentazione.