“Scusate il disturbo”.

Sono le ultime tre parole dell’ultimo messaggio di Martina Oppelli. Oppelli è morta la mattina di giovedì 31 luglio in Svizzera. Aveva chiesto di poter morire a casa sua.

“Perché, perché dobbiamo andare all’estero, perché dobbiamo pagare, anche affrontare dei viaggi assurdi? Io ho fatto un viaggio lunghissimo, dopo che non uscivo da casa da più di un mese e non lasciavo la mia città da oltre undici anni, è stato veramente uno sforzo titanico”.

Perché?

Oppelli è ormai dipendente dagli altri per qualsiasi cosa, deve usare la macchina per la tosse, assume molti farmaci.

“In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, ma non ho più forza nemmeno di respirare delle volte, perfino i comandi vocali non mi capiscono più. Ecco, io ho anche il catetere vescicale, ho un tubo di scappamento come una macchina al quale non sarei mai voluta arrivare, perché io non sono una macchina, sono un essere umano, io non funziono, io vivo e voglio vivere dignitosamente fino alla fine, o desideravo. Adesso desidero morire dignitosamente, per piacere”.

Come ha chiarito la sentenza 135 del 2024, l’interpretazione del trattamento di sostegno vitale – che è uno dei quattro requisiti per potere accedere al suicidio assistito – non è e non deve essere restrittiva e limitata a un macchinario. “Nella misura in cui tali procedure [che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o ‘ caregivers’ che si facciano carico dell’assistenza del paziente] – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019”.

Nonostante questo, l’azienda sanitaria per tre volte ha detto che no, Oppelli non aveva questo requisito.

Martina Oppelli, tramite la sua procuratrice speciale Filomena Gallo, ha denunciato l’azienda sanitaria ASUGI per rifiuto d’atti d’ufficio e per tortura. È tardi per lei, ma forse potrà essere utile per qualcun altro. Per evitare che un’azienda sanitaria possa metterci tutto questo tempo e ignorare quello che dicono le sentenze costituzionali – la cui interpretazione non sembra essere particolarmente difficile, eppure.

È tardi per lei, ma forse qualcuno sarà considerato responsabile. Che sembra qualcosa di incredibile e che invece dovrebbe essere una banale sicurezza: se io ho un diritto e se tu fai di tutto per impedirmi di esercitarlo, dovresti prenderti la responsabilità di questa oscena omissione.

“Fate una legge che abbia un senso, una legge che tenga conto di ogni dolore possibile, che ci siano dei limiti, certo, delle verifiche, ma non potete fare attendere due, tre anni prima di prendere una decisione”.

Rimandare e rimandare sembra essere una precisa strategia di sabotaggio. Un domani che non arriva mai e un diritto che evapora nell’attesa di una risposta.

Oppelli è stata accompagnata da Matteo D’Angelo e da Claudio Stellari. Con loro ci sono molti altri disobbedienti, che hanno contribuito alle spese di questo viaggio evitabile attraverso l’associazione Soccorso Civile. C’è anche Marco Cappato, che è il responsabile legale di Soccorso Civile, e ci sono anche io.

È incredibile la sordità politica. Mi chiedo sempre più spesso se è sciatteria oppure una intenzionale distrazione. In ogni caso, non so davvero che cosa si sarebbe potuto rispondere a Oppelli. O meglio, lo so perché è successo mille volte. Non so come non vi possa sembrare moralmente ripugnante. Nascondersi dietro a quale scusa, rimandare per chissà quale motivo, fare finta che sia per il suo bene.

“Scusate il disturbo”.