Sono giorni strani. Convulsi. Pesaro (o meglio Ancona), poi la Calabria, quindi Milano che si riprende la scena. La giustizia torna a fagocitare la politica. Come non dovrebbe essere. E come invece avviene ormai da più di trent’anni. Ma sarebbe insensato negare che ora è diverso. Che negli ultimi giorni, nelle ultime settimane, gli attori hanno scelto un copione per lo più inedito. Persino Conte, Giuseppe Conte, il leader del Movimento alfiere dell’antipolitica, arriva a “diffidare” Matteo Ricci non dall’insistere nella candidatura a presidente delle Marche, ma dal ritirarsi. Perché, udite udite, altrimenti «si crea un precedente». E tutti i precedenti che hanno creato lui, cioè Conte, e i suoi amici pentastellati, ogni volta in cui hanno urlato “a casa” a un politico indagato e poi riconosciuto innocente? Sembra uno scherzo. Sembra una farsa, come riferisce il nostro Giacomo Puletti in un altro articolo sul Dubbio di oggi, un report impietoso sul disappunto dei dem, costretti a inchinarsi per la grazia ricevuta dall’alleato. E però, ridurre il tutto a opportunismo, all’ipocrisia, al trasformismo che da sempre attraversa la politica italiana, sarebbe riduttivo. E sarebbe riduttivo anche limitarsi a dire che Roberto Occhiuto, governatore calabrese dimissionario, è un gran furbastro più di quanto non lo sia Conte e che, da indagato, lascia e raddoppia con un doppio passo alla Biavati (vabbe’, già quelli della mia generazione manco si ricordano che assai prima di Ronaldo c’era un certo Amedeo Biavati).

Occhiuto si appresta a ripresentarsi da vincitore confermato nelle urne davanti ai magistrati, che, forse, avrebbero optato comunque per l’archiviazione. E certo, non sfugge che in altri tempi, solo fino a pochi anni fa, difficilmente un presidente di Regione inquisito avrebbe potuto scommettere sul voto con tanta sfrontata guasconeria.

Ma di nuovo: credete davvero che tutto si riduca all’astuzia, all’opportunismo, alla sagacia nell’amministrare il consenso, e i rapporti con gli alleati, in situazioni pure delicate? Non è solo questo. Né per Conte, né per Occhiuto e, in un certo senso, non lo è persino per Beppe Sala a Milano. Perché nella politica italiana serpeggia evidentemente un’altra sensazione. Si percepisce un vento già nuovo.

Tra meno di un anno, probabilmente, un referendum suggellerà la separazione delle carriere. Carlo Nordio, due giorni fa, ha detto al Tg2 di confidare che non si tratti di un voto «politico», che la consultazione sulla riforma dei magistrati possa mantenersi nel perimetro del giudizio tecnico, giuridico. Il ministro autore del ddl costituzionale esorta a non travisare il referendum confermativo né in una vendetta delle toghe contro la politica spudorata, né nella rivalsa dei partiti contro la magistratura persecutrice. Nordio fa bene a metterla in quei termini. Anche perché forse lo scenario che prefigura è un po’ estremizzato. Però, se come attualmente pare più probabile, gli italiani diranno sì alla separazione delle carriere, si chiuderà comunque un capitolo della storia italiana sul quale siamo fermi dal 1992. Si sancirà il ritorno della politica al primato nell’architettura istituzionale. Non perché ci sia una parte, un potere, che deve, appunto schiacciare gli altri, ma perché la sovranità popolare si esercita innanzitutto nella forma più alta che le nostre democrazie abbiano, da qualche secolo, individuato, cioè nel Parlamento. Dove ci sono i partiti. E dove si fa, appunto, politica.

Ora: pensate davvero che Conte, ma naturalmente anche Occhiuto o Ricci, che non si è certo lasciato impressionare dall’avviso di garanzia, siano ignari della prospettiva appena evocata? Davvero credete che la possibilità, concreta, di una vittoria solenne, nel referendum sulle “carriere”, della politica ai danni dell’Anm non cambi gli equilibri in Italia? Li cambia eccome. Sebbene le probabilità che il sì alla riforma Nordio vinca discendano dal consenso di cui ancora gode, a livello nazionale, il governo Meloni, il sigillo delle urne produrrà a propria volta effetti moltiplicati sul piano della sensibilità collettiva. Sarà il timbro sulla fine di un’epoca. Sulla chiusura di un lungo conflitto che ha visto la politica per lo più soccombere alle irresistibili Procure. E si amplificherà, nell’opinione pubblica, l’idea che è archiviata per sempre la stagione in cui alla magistratura si guardava come alla provvidenza.

In un post pubblicato stamattina, Gian Domenico Caiazza non ha nascosto lo sconcerto per l’ennesima «farsa» di un candidato inquisito ma graziato dall’alleato-censore Conte, che, dopo la lettura degli atti d’indagine, lo ha assolto. Che la scena sia poco edificante è vero, ed è farsesco soprattutto il modo in cui in Italia sono recepiti i concetti di segretezza e impubblicabilità degli atti di un procedimento penale. Ma non si può ignorare che, a prescindere dalla luna buona o storta, in altri tempi un leader del Movimento 5 Stelle avrebbe scaraventato Matteo Ricci nel girone degli impresentabili. E che se oggi un candidato alla Regione Marche non deve neppure passare per il purgatorio del temporaneo passo indietro, qualcosa, fra la politica e le Procure, è cambiato davvero.