Genocidio. Tra le labbra di David Grossman quel termine, genocidio, non è solo un’accusa, ma il rumore sordo e tragico di una valanga che travolge il silenzio dell’Occidente. Un boato che risveglia noi tutti dal torpore, dall’ostinazione di non voler vedere fino in fondo cosa stava accadendo, e accade ancora oggi, a Gaza.

Grossman, scrittore e padre spezzato da quella guerra, ha dunque infranto l’indugio che lo aveva trattenuto per settimane, forse per mesi, anni. Lo ha fatto come solo un uomo intelligente può fare: con misura, con dolore, con una parola che pesa come una pietra, pronunciata non per condannare ma per liberare.

Perché Grossman, sia chiaro, non offre il suo nome all’accusa facile, non è tra chi usa quel termine come una clava per demonizzare Israele, mettere in dubbio il suo diritto a esistere, proprio lì, in quella terra. E, soprattutto, non ha nulla a che vedere con chi ha osato liquidare il pogrom del 7 ottobre come un atto di “legittima difesa”: «Non dobbiamo permettere che chi nutre sentimenti antisemiti manipoli e usi la parola genocidio», ha chiarito.

Eppure, eccolo lì quel termine che fa tremare i polsi. Ora è sul tavolo della storia. E a metterlo davanti ai nostri occhi non è stata la retorica dei salottini propal, né il riflesso pavloviano dell’indignazione a senso unico. Ci ha pensato un uomo, uno scrittore, un padre che il dolore di quel conflitto lo ha cucito addosso.

E questo – bisogna pur dirlo – significa qualcosa.