Esiste un articolo nella nostra Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I padri costituenti hanno espresso questa volontà, che è la sintesi di ideologie e di pensieri filosofici di elevato spessore, all’articolo 27. La pena, assolutamente necessaria per chi commette il delitto, non può e non deve avere esclusivamente una funzione punitiva. Essa non deve umiliare la persona o essere solo un complesso di privazioni per il condannato.

La pena non deve solo privare, ma deve anche offrire: prima fra tutte l’opportunità di una redenzione. La pena, difatti, svolge adeguatamente la funzione che la Costituzione le ha conferito quando diventa percorso umano e spirituale che porta il condannato ad una svolta, ad un cambiamento radicale nella sua esistenza. La pena deve essere un punto di rottura tra il passato ed il presente; tra ciò che era e ciò che sarà; tra il buio e la luce.

La privazione della libertà personale è assolutamente necessaria, ma la reclusione ha diverse funzioni, tra cui la prevenzione generale ossia la dissuasione dalla commissione di reati, la prevenzione speciale ossia la rieducazione del condannato e prevenzione di nuove condotte criminali, la retribuzione ossia la punizione per il reato commesso e l’emenda ossia la correzione del comportamento del reo. L’articolo 27 della Costituzione italiana sottolinea però la funzione rieducativa della pena, che deve tendere al reinserimento sociale del condannato.

Non commento mai provvedimenti emanati, ma in questo caso mi permetto di farlo perché troppo grave e sempre più frequente il fenomeno della violenza di genere e familiare e perché vorrei fornire una speranza anche a chi ha commesso gravi e sgradevoli reati; ma principalmente ribadire che tali fenomeni si affrontano, come prescritto dalle recenti novelle legislative, con la doverosa fermezza di una giusta celere condanna e principalmente con una vera e propria presa in carico dell’uomo- padre maltrattante in appositi centri di recupero cui va il plauso di tutti noi per ciò che quotidianamente fanno, così come per tutta la rete di supporto, in primis i servizi sociali territoriali e sanitari. Certo, se poi il reo non vuol cogliere l’opportunità offertagli devono prevalere le altre funzioni della pena, ma ciò non esime uno Stato civile a democrazia avanzata dal provarci: anche perché solo così possiamo evitare reiterazione di reati della stessa indole e restituire alla società una persona migliore e non peggiore dopo l’espiazione della pena.

È esattamente questo ciò che è accaduto ad un uomo che è stato anni fa allontanato dalla famiglia e poi giustamente condannato per maltrattamenti: chi commette violenza intrafamiliare va assolutamente punito ma anche preso in carico, in maniera tale che possa non solo ravvedersi ma anche divenire lui stesso una persona diversa e così evitare, ribadisco solo dopo l’espiazione della pena, ricadute e recidive.

Una persona violenta - se disposta a cambiare, se ben seguita da tutta le rete - come dimostra questa vicenda familiare, può in futuro recuperare e divenire un buon genitore. Certo non tutti, ma alcuni sì. Dopo aver eseguito la pena da maltrattante è divenuto presenza importante per i propri figli: quei figli da cui era stato allontanato a causa delle sue pulsioni negative nei confronti della compagna. Perché il reo è un uomo che ha ceduto alle sue pulsioni negative; che è caduto nel vortice dei suoi più cupi pensieri; che ha agito dando sfogo alla parte più oscura della sua anima. La pena deve rendere l’uomo libero e consapevole e deve donargli la capacità ed il desiderio di scegliere il bene.

Sant’Agostino diceva che esiste un diritto naturale che Iddio ha impresso nel cuore di ogni uomo: la coscienza del bene e del male. La scelta del bene da parte del condannato è il fine a cui deve tendere la pena; è il dono che la pena deve fare al condannato; è la ricchezza che il condannato deve aver acquistato al termine del suo cammino. Non dimentichiamo che ciascun uomo ha dentro di sé il seme del bene: bisogna aiutarlo a coltivarlo se dimostra di meritarlo. Lo stesso delitto ed il rimorso che ne consegue è già una pena per alcuni condannati: su questo aspetto psicologico occorre lavorare da parte di personale altamente qualificato perché costituisce un germe su cui lavorare.

In questo percorso di resipiscenza e di vita il giudice ha un ruolo fondamentale. Specie il giudice minorile e della famiglia il cui compito non è dirimere una controversia o decidere se una persona è innocente o colpevole bensì lavorare sulle dinamiche familiari in continua evoluzione e sostenerne i percorsi di cambiamento. La giustizia minorile è meravigliosa e molto complessa nel contempo: esattamente come la vita! Ma io credo che più in generale il giudice non debba essere un freddo operatore del diritto che applica le leggi con distacco e con anima sterile. La giurisdizione “accompagna” il condannato nel viaggio che egli compie dentro la sua anima; nel cammino che egli compie per espiare la sua colpa.

Il Tribunale non è un luogo dove si confezionano condanne, ma un mondo molto simile alla vita: pieno sì di complicazioni, ma anche di meraviglie. Un luogo dove a volte è difficile compiere il proprio compito, ma anche dove questo compito può divenire salvezza per molti. Questo complesso di regole che è il diritto, in fondo, è un miracolo dell’uomo per l’uomo. E queste regole, apparentemente prive di anima, possono riempirsi e riempire le vite degli uomini di gioie, di speranze, di rinascite.