Sono convinta che nel tempo l’istituzione del reato autonomo di femminicidio, appena approvata dal Senato e passata all’esame della Camera, possa essere riconosciuta come una pagina importante della storia dei diritti delle donne, al pari di altri leggi fondamentali quali l’abolizione del matrimonio riparatore, il riconoscimento dello stupro quale reato contro la persona, il varo del nuovo diritto di famiglia, il divorzio e la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. A partire dall’esperienza vissuta con la Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio, posso dire di avere maturato con il tempo la consapevolezza della necessità di arrivare al reato di femminicidio, cosa che mi aveva portato a sostenere pubblicamente questa ipotesi già qualche tempo prima che il governo decidesse di presentare il relativo ddl.

Il testo uscito dal Senato è stato approvato all’unanimità in Commissione e in Aula ed è molto migliorato rispetto all’originale, grazie a un impegno del Pd e delle altre opposizioni e alla disponibilità della maggioranza ad accogliere importanti modifiche. Ma è inutile nascondere come questo provvedimento continui a suscitare perplessità, in particolare tra i giuristi e soprattutto tra gli avvocati e gli studiosi di diritto penale.

La prima delle obiezioni – avanzata sulla base della programmatica oggettività e neutralità del diritto penale rispetto al sesso e al genere - riguarda proprio il ricorso nel codice penale allo specifico e autonomo delitto di femminicidio. Ebbene, questa neutralità ad oggi è soltanto pretesa, come ha da tempo rilevato il femminismo della differenza: il nostro Codice penale, lontano dall’essere “neutro” è bensì storicamente segnato da un ordine chiaramente maschile e per questo contribuisce a produrre e riprodurre le condizioni di disuguaglianza sostanziale, sociale, simbolica e culturale di dominazione dell’uomo sulla donna, caratteristico della società patriarcale.

Cito solo due esempi, ma se ne potrebbero fare molti altri: nel Codice penale si parla di “cittadino” anche per menzionare e punire, all’art. 583- bis c. p.- le mutilazioni genitali femminili, mentre l’omicidio, previsto all’art. 575 c. p. è ancora l’uccisione di un “uomo”, ricomprendendo nel termine anche le donne. Le donne stesse e il loro corpo – che genera, a differenza di quello maschile - sono per lo più invisibili per il diritto stesso.

Introdurre il femminicidio nel Codice penale significa quindi “trovare le parole”, sessuare, nominare e riconoscere un fenomeno di cui solo le donne sono vittime. Definire, come abbiamo fatto, il femminicidio come l’uccisione di una donna come atto di discriminazione, di prevaricazione, di controllo, di possesso, di dominio, o di limitazione delle libertà individuali o come atto compiuto in seguito al rifiuto femminile di instaurare o continuare una relazione affettiva significa riconoscere la natura strutturale di questa specifica violenza, che ha radici nell’asimmetria di potere tra i sessi. Il nuovo delitto potrà così agevolare i magistrati e gli altri operatori della giustizia non solo a riconoscere il femminicidio nelle aule di giustizia, ma anche e soprattutto a leggere correttamente la violenza contro le donne senza derubricarla a conflitto famigliare, come prescrivono la Convenzione di Istanbul e altre convenzioni internazionali. Concepire un’aggravante invece che il reato autonomo non avrebbe, al contrario, centrato proprio questi obiettivi.

E qui vengo alla seconda obiezione, che riguarda lo strumento penale, per molti inidoneo a perseguire una battaglia che si consuma per lo più sul piano culturale. In verità una scelta legislativa finalizzata a svelare e definire, oltre che a punire, le dinamiche della violenza contro le donne, non può che essere un passo ulteriore per cambiare i modelli sociali e culturali e nel tempo il sentire comune sull’uccisione di una donna in quanto donna. Di sicuro non il solo passo, né quello definitivo, perché ce ne vorranno molti altri, ma certo un passo nella giusta direzione, perché incidere in positivo sul linguaggio, sulla consapevolezza, sulla lettura corretta del fenomeno alla lunga incide anche sui modelli sociali, relazionali e culturali e rientra dunque nella difficile, complessa e multiforme opera di prevenzione, che è e rimane la strada maestra per contrastare la violenza maschile. Quello della prevenzione, del resto, è un aspetto che viene ripreso anche da questo ddl, con la previsione dell’obbligo di formazione per gli operatori di giustizia. A questo si aggiungono ordini del giorno approvati che impegnano il governo a investire sull’educazione all’affettività e al rispetto della differenza, a introdurre nei curricula universitari corsi dedicati alla violenza contro le donne e al riconoscimento degli stereotipi e dei pregiudizi di cui sono vittime e a investire di più sui Centri antiviolenza e sulle Case rifugio.

La terza obiezione riguarda l’ergastolo e la deterrenza, versus la prevenzione, di cui ho già parlato. Non si istituisce il nuovo delitto con lo scopo dell’ergastolo, che è già possibile comminare, almeno a certe condizioni, ma si stabilisce la pena dell’ergastolo per il femminicidio in coerenza con il sistema sanzionatorio penale. E sarebbe stato difficile fare diversamente, a sistema penale vigente, a meno di non pensare di poter punire meno severamente il femminicidio rispetto all’uccisione di una donna per altre ragioni. Altra partita è invece l’abolizione dell’ergastolo: una battaglia ambiziosa, quanto giusta e opportuna, che andrebbe però fatta pensando all’intero impianto del Codice e dunque a tutti quei reati per i quali finisce per essere applicato oggi. Sarebbe una battaglia in sintonia con il nostro spirito costituzionale, che vedrebbe tante donne in prima linea, di sicuro tante femministe. Invece, parlarne solo rispetto al femminicidio dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, quanto per le donne è sempre tutto più difficile.