Ci sono storie giudiziarie che sembrano non finire mai. Ritornano, mutano, si ripropongono con nuovi capitoli. Questa volta, però, non sono unicamente le narrazioni mediatiche ad alimentare il dibattito, sia pubblico, che giuridico, ma si inserisce un nuovo fattore nell’equazione: le scoperte scientifiche. Il caso Garlasco, con il nuovo clamore suscitato a vent’anni dalla morte di Chiara Poggi, rientra in questa categoria. Ma ciò che oggi emerge non è tanto un nuovo colpevole, quanto un nuovo interrogativo: quanto può durare un processo? E fino a che punto la tecnologia può riaprire i giochi? La condanna definitiva di Alberto Stasi sembrava aver chiuso un percorso lungo e tormentato. Giova anche ricordare come la giustizia italiana contempli la possibilità della revisione, un istituto straordinario pensato per riaprire procedimenti ormai definitivi, sulla base di nuove prove decisive ed elementi nuovi che possono riaprire il caso. Non è però un passe-partout per riesumare ogni verdetto scomodo.

Lo stesso Stasi, nel 2020, aveva avanzato una richiesta di revisione del procedimento, sulla base di nuovi elementi – che in questi giorni hanno assunto una rilevanza totalmente diversa – quali impronte su un dispenser di sapone, capelli sul lavandino, e circostanze relative a una testimonianza. La Corte d’appello di Brescia, aveva affermato che non fossero da ritenere «nuove prove» ai fini di una revisione e che non incidessero sugli elementi indiziari posti alla base della sentenza di condanna. Eppure, l’evoluzione delle scienze forensi — con tecnologie di sequenziamento genetico sempre più raffinate e banche dati biometriche sempre più estese — è riuscita a rimettere in discussione proprio alcuni di questi elementi, che ora sì, potremmo definire nuovi e forse decisivi.

L’evoluzione scientifica degli ultimi anni fa il suo ingresso nel processo penale, mettendo alla prova un principio sacro e fondamentale del nostro ordinamento, quale è il principio della certezza del diritto. L’analisi di un capello, l’identificazione di un’impronta latente, la comparazione di tracce biologiche prima invisibili: ogni passo avanti della scienza sembra poter riattivare i motori della giustizia. Ma se ogni nuovo strumento diagnostico diventa una ragione per tornare in aula, allora il principio del “giudicato” rischia di sgretolarsi.

La dilatazione del procedimento attraverso innovazioni scientifiche costanti rischia di rivelare un sistema giuridico che non sa chiudere i propri conti, un sistema che espone i cittadini — vittime e imputati — a un’eterna precarietà. Certo, nessun ordinamento moderno può ignorare la possibilità che la tecnologia riveli errori clamorosi, con annessa possibilità di riaprire le indagini. Ma occorre anche, con onestà intellettuale, rilevare come accettare che ogni svolta scientifica generi automaticamente una svolta giudiziaria significhi piegare la giustizia al tempo incerto della ricerca, snaturando la funzione della giurisdizione. E qui si apre un secondo fronte, ancor più delicato: il processo mediatico. Le nuove scoperte, prima ancora di entrare nei fascicoli processuali, si trasformano in hashtag, titoli a nove colonne, interviste esclusive. Il tribunale dell’opinione pubblica lavora a ritmi molto più veloci della giustizia ordinaria. E spesso con standard di prova molto meno rigorosi. Così, il caso Garlasco si trasforma da vicenda giudiziaria a palinsesto permanente. E la tensione tra “verità giudiziaria” e “verità percepita” diventa lacerante.

Il rischio non è solo quello di destabilizzare un verdetto: è quello di mettere in crisi l’intero patto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Il diritto non può rincorrere ogni elemento né inseguire ogni novità scientifica come se fosse oro probatorio. La funzione del processo è quella di accertare fatti, non di proiettare desideri di verità assoluta. E in questo equilibrio fragile tra evoluzione e stabilità, si gioca oggi una delle sfide più cruciali per il diritto penale contemporaneo.

La giustizia non è infallibile. Ma deve essere affidabile. E per esserlo, ha bisogno di confini chiari: temporali, probatori, epistemologici. Senza questi, anche il più sofisticato strumento scientifico rischia di diventare una miccia accesa in un sistema già sotto pressione. Alla fine, la domanda che ci pone il caso Garlasco potrebbe essere anche “chi è stato?”, ed è sacrosanto, soprattutto laddove potrebbe essere un innocente a farne le spese. Siamo però pronti ad accettare che ogni certezza giuridica sia provvisoria? Ma soprattutto, dobbiamo rispettare le regole costituzionali del giusto processo o in questi tempi siamo alla ricerca del processo giusto, cioè quello che conduce al risultato desiderato?