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Si procede ancora per colpi di scena, per sfide, appuntate dall’opinione pubblica come i punti di una partita a tennis. E il caso Garlasco, a quasi vent’anni dall’omicidio di Chiara Poggi, continua a vivere di nuove fiammate, sospetti, ricorsi, apparizioni mediatiche e controverse decisioni giudiziarie.
L’ultima svolta riguarda il tentativo della procura generale di Milano di ottenere la revoca della semilibertà per Alberto Stasi, alla quale si era già opposta in precedenza. Il motivo? Un'intervista concessa dal 41enne a Le Iene durante un permesso premio dal carcere di Bollate per motivi familiari, ritenuta una possibile violazione delle condizioni imposte. Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni per l’omicidio della fidanzata, si trovava in regime di lavoro esterno. A suo sostegno è stato prodotto un documento del direttore del carcere, Giorgio Leggieri, secondo cui «non si sono rilevate infrazioni». Ma per la procura generale, quel colloquio con i giornalisti non sarebbe compatibile con le finalità del permesso, motivando così il ricorso in Cassazione.
«Siamo tranquillissimi», ha replicato l’avvocata Giada Bocellari, legale di Stasi. «Se mai avesse violato qualche prescrizione, gli avrebbero dovuto revocare il lavoro esterno, non la semilibertà». Il Tribunale di Sorveglianza aveva già rigettato la prima richiesta della procura, rilevando come Stasi avesse tenuto un comportamento coerente con la propria posizione, «in linea con l'accettazione della condanna», pur ribadendo la propria innocenza. Inoltre, «il permesso premio non imponeva alcun divieto espresso di rapporti con i giornalisti».
Ma il caso Stasi è da sempre avvolto da un alone di ambiguità giudiziaria, alimentato da un impianto accusatorio controverso, da perizie discordanti, da un’opinione pubblica polarizzata e — non da ultimo — da quella frase pronunciata nel 2015 davanti alla Corte di Cassazione dal sostituto procuratore generale Oscar Cedrangolo, che più di ogni altra sintetizza la genesi del ragionevole dubbio: «Io non sono in grado di decidere, e nemmeno voi». Era l’atto finale di un processo fiume durato otto anni: due assoluzioni, un annullamento con rinvio, e infine la condanna.
Cedrangolo — oggi in pensione — in quell’udienza ruppe uno dei tabù più solidi del sistema giudiziario italiano: ammise, da magistrato, di non saper dire se l’imputato fosse colpevole o innocente. Ma chiese comunque un nuovo processo, invocando lo stesso scrupolo che la Cassazione aveva dimostrato annullando le due assoluzioni precedenti. «Forse non ci pensate — aggiunse — ma i giudici possono essere condizionati dai media che spettacolarizzano i processi». La Corte non accolse quell'appello. La sentenza fu confermata il 12 dicembre 2015. Ma la memoria di quelle parole rimase come un’ombra su tutto il procedimento: perché se un procuratore della Cassazione afferma di non poter decidere, cosa resta del principio di “colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio”?
Eppure, nonostante le incertezze processuali iniziali, la Cassazione nella sentenza definitiva ribadì con forza la responsabilità di Stasi, pur riconoscendo che le indagini furono tutt’altro che impeccabili. Nelle motivazioni, i giudici scrissero che l’inchiesta fu «senz’altro non limpida, caratterizzata anche da errori e superficialità». Il caso più emblematico fu la mancata acquisizione immediata della bicicletta nera da donna appartenente alla famiglia Stasi, citata da una testimone come presente vicino alla casa dei Poggi nel momento compatibile con l’omicidio. Quella bici verrà sequestrata solo nel 2014, sette anni dopo il delitto. E solo allora si scoprirà che sui pedali — nel frattempo sostituiti — c’erano tracce di Dna di Chiara Poggi. Un elemento che, secondo i giudici, avrebbe potuto rappresentare una svolta se acquisito subito.
La Suprema corte definì quel mancato sequestro un «anello mancante» nell’attività investigativa. Tuttavia, secondo la stessa Corte, il giudizio espresso nel processo d’appello bis «si è fatto correttamente carico della mancanza di tale tassello», valorizzando gli altri indizi. La decisione della Cassazione fu chiara: il quadro probatorio non solo era sufficiente, ma non lasciava spazio a «versioni alternative dotate di razionalità e plausibilità pratica». I giudici specificarono anche che la mancata individuazione del movente — un elemento centrale nella narrazione difensiva — «non incide in alcun modo sul complessivo quadro indiziario», soprattutto nel caso di un «omicidio d’impeto» come quello.
Quanto alla richiesta dell’accusa di riconoscere l’aggravante della crudeltà, la Cassazione la respinse. I giudici, richiamando il caso Parolisi, stabilirono che Stasi non aveva agito per infliggere sofferenze aggiuntive: nessuna premeditazione, nessuna volontà di tortura. Secondo la Corte, l’omicidio avvenne per «dolo d’impeto», in un contesto relazionale intimo e carico di tensione. Chiara Poggi fu colpita con violenza al capo, più volte, con un oggetto contundente compatibile con un martello. Il delitto avvenne all’ingresso della villetta, e fu il frutto — secondo la ricostruzione — di un’esplosione emotiva. La Corte aggiunse che «le modalità dell’aggressione rivelavano l’esistenza di un pregresso tra vittima e aggressore» sufficiente a giustificare, anche in assenza di movente definito, l’origine del gesto.
Il caso Stasi è oggi cristallizzato nella verità giudiziaria, ma continua a vivere nella memoria collettiva come una vicenda piena di zone grigie. E la nuova indagine a carico di Andrea Sempio riaccende quel contrasto mai sopito tra legalità e percezione, tra sentenze e dubbi. È la storia di un processo che non è riuscito a tenere fuori il rumore mediatico. E che alla fine ha dovuto fare i conti proprio con quel rumore. Perché anche dopo l’ultima parola della giustizia, resta ancora impressa quella frase: «Io non sono in grado di decidere, e nemmeno voi». Ed è in quel vuoto che si annida il senso più autentico del ragionevole dubbio. Quello che non assolve, ma nemmeno dimentica.