Il presidente del Senato e fondatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa propone pubblicamente di far uscire in anticipo chi è vicino alla fine della pena. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti dice di condividerne la sostanza, ma esplode per il modo: «Sono incavolato nero!», perché la mossa è arrivata senza un accordo e il governo, tramite il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, l’ha subito smentita, lasciando dietro di sé migliaia di persone con una speranza che si è presto spenta.

Dentro le celle ogni parola pubblica si trasforma in promessa. Il carcere è quello che gli studiosi chiamano “istituzione totale”: un ambiente che taglia i contatti, annulla progressivamente i riferimenti esterni e concentra ogni significato nella dimensione comune della detenzione. In quella realtà una frase su un possibile “uscire prima” non resta una notizia: diventa progetto di vita, motivo di discussione e bussola per le tensioni quotidiane.

Non sono solo parole di sociologia. Già in passato, quando si è tentato di mettere a punto una misura deflattiva - un testo su cui circolavano voci e bozze che prendevano spunto dalla proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale - molti familiari hanno cominciato a interpretare i titoli come se si parlasse di un vero e proprio indulto. Testate conservatrici come Il Fatto Quotidiano usarono espressioni del tipo «Ecco l’indulto! Il tana libera tutti!», contribuendo a trasformare una proposta tecnica in un’immagine fuorviante e potente: tutti fuori. E lo fecero con l’intento, riuscito, di mettere in difficoltà il governo di destra, che deve accontentare i suoi elettori, e affossare quel tentativo. Quel linguaggio semplificato ha alimentato l’illusione e ha reso più complicata la costruzione di un’intesa politica.

Il problema non è retorico. Studi e ricerche sul sistema carcerario mostrano che il malcontento in carcere può trasformarsi in disordini con grande velocità: isolamento, privazioni e percezione di ingiustizia creano un terreno già pronto. In più, la diffusione delle voci tra colloqui, telefonate e messaggi portati dall’esterno - può moltiplicare le attese e indebolire il controllo informale che tiene insieme i cortili. Non serve molto: una promessa non mantenuta può essere la scintilla che accende una rivolta. Dare false speranze è dunque pericoloso per la sicurezza e per la dignità.

Le famiglie fanno circolare la notizia, i detenuti la discutono, i gruppi informali dentro il carcere riorganizzano le gerarchie attorno a quella speranza. Quando l’illusione svanisce, la delusione non resta privata: diventa frustrazione collettiva. Chi parla pubblicamente - e a maggior ragione chi occupa una carica alta nello Stato - deve sapere che le parole hanno effetti materiali su persone che vivono in condizioni estreme.

Non si tratta di bloccare il dibattito sulle misure per alleggerire il sovraffollamento. Si tratta di fare le cose con metodo: proposte chiare, messaggi coordinati, tempi definiti. Si può partire da misure concrete - sconti di pena rimodulati, misure alternative ben definite, tutele per i più fragili - ma lo si deve fare senza gettare in pasto alle redazioni e ai social formule non condivise. È un errore politico e umano seminare illusioni dove regna la precarietà. La politica che vuole risolvere il problema delle carceri non può giocare a sorpresa. Non per formalismo, ma per rispetto delle persone che in quelle mura vivono, per evitare di alimentare tensioni che poi esplodono. Se non si lavora con attenzione, resta solo rumore, e nei cortili il rumore diventa presto realtà.

Ma anche l’intervento secco di Mantovano per smentire La Russa non è indolore. Una chiusura ferma, accompagnata dalla solita retorica del costruire nuove carceri, quando è oggettivo che non è la soluzione al sovraffollamento. Un contrasto che genera altra frustrazione. Le parole contano. La promessa che non si traduce in atto non è soltanto una sconfitta politica: è una ferita che si apre dentro le celle. Prima di lanciare annunci che rimbalzano all'esterno, chi decide dovrebbe ricordarsi di chi ascolta dentro. Perché lì, dove tutto è totalizzante, basta poco perché una leggenda prenda la forma di un fatto. E tutto ciò non può che riportare a ciò che dicono i maggiori studiosi del carcere, da Goffman a Clemmer, passando per i rapporti del Consiglio d’Europa: nelle prigioni, l’attesa è una sostanza viva. Le giornate sono fatte di poche certezze, e ogni notizia diventa un appiglio, un modo per dare un senso al tempo che resta. Chi vive chiuso sviluppa un’attenzione estrema per ogni segnale, per ogni voce, per ogni gesto dell’autorità. È un ambiente dove la fiducia è fragile e la delusione arriva in massa, non individuo per individuo.

Per questo, una promessa sbagliata pesa più di un errore tecnico: scuote l’equilibrio di una comunità forzata che regge solo se percepisce coerenza e serietà da chi sta fuori. Se la politica vuole davvero affrontare il sovraffollamento, deve partire da qui: dal non tradire quella minima fiducia che permette al carcere di non esplodere. Perché nei luoghi dove il tempo non passa mai, la speranza è una moneta preziosa. Sprecarla significa accendere una miccia che nessuno, poi, sa come spegnere.