Il 10 aprile scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver mantenuto al 41 bis lo storico boss ’ndranghetista novantenne Giuseppe Morabito, nonostante il peggioramento del suo stato di salute, in particolare il decadimento cognitivo. Il governo non ha chiesto il rinvio alla Grande Camera entro i tre mesi previsti dall’articolo 43, dunque la sentenza è diventata irrevocabile e la Cedu ne ha dato notizia ufficiale. Eppure Morabito resta in regime di carcere duro, e per giunta nonostante la diffida inviata al ministro della Giustizia dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, sua legale.

Ma non finisce qui. Nel frattempo sono state da poco depositate le motivazioni della Cassazione che ha accolto il ricorso (chiedendone il rinvio per una nuova decisione) contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva confermato il 41 bis disposto dal Guardasigilli. La sentenza della Cedu copre il periodo fino al 24 maggio 2023, data in cui Morabito è stato ospedalizzato d’urgenza per un’ernia, con conseguente interruzione del 41 bis. Ma durante la procedura innanzi alla Corte, il regime era stato nuovamente disposto dal Guardasigilli. Decisione poi confermata dal Tribunale di Sorveglianza di Roma con motivazione che puntava sulla “perdurante posizione apicale” e sull’operatività del clan. Motivo per cui l’avvocata Araniti ha presentato ricorso in Cassazione, integrandolo – dopo la sentenza Cedu – con una memoria che evidenzia come la Corte europea abbia giudicato ingiustificata la proroga del regime differenziato nei confronti del detenuto ultranovantenne.

L’avvocata Araniti, nel ricorso, ha evidenziato che il Tribunale non ha dato alcun peso alle relazioni cliniche che attestano un netto peggioramento della salute mentale di Morabito, ignorando così l’effettiva compromissione della sua capacità di intendere e di volere. Ancora più grave, secondo il legale, è stato lo scollamento tra il giudizio del perito – che descriveva uno stato di demenza avanzata – e le poche battute intercettate nei colloqui con i familiari, su cui il Tribunale ha invece basato la conferma del carcere duro. Infine, non è stata considerata la sentenza della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2025, che ha ribadito come il regime del 41- bis non possa essere mantenuto quando il detenuto mostra un evidente e grave deterioramento cognitivo.

IL DETERIORAMENTO COGNITIVO E LE OMISSIONI DEL TRIBUNALE

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha demolito la ricostruzione del Tribunale di Sorveglianza con un'analisi di straordinario rigore metodologico. Il vizio fondamentale dell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, secondo i giudici di legittimità, risiede in una carenza motivazionale tanto grave quanto decisiva: l'omessa considerazione dell'effettivo rapporto tra le concrete condizioni di salute di Morabito e l'apprezzamento della sua pericolosità persistente.

La Cassazione ha messo in luce come i giudici di merito abbiano sostanzialmente ignorato una serie di elementi probatori di vitale importanza. In primo luogo, l'integrazione della perizia medico- legale resa dal dottor Cirillo, che aveva specificato come le frasi pronunciate dal detenuto nelle conversazioni intercettate fossero del tutto irrilevanti rispetto all'individuazione di qualsiasi forma di elaborazione cognitiva complessa. In altre parole, la capacità di pronunciare frasi di senso compiuto non equivale affatto alla capacità di pianificare o dirigere attività criminali. Ma c'era di più.

Il quadro probatorio comprendeva una serie impressionante di elementi convergenti: le assoluzioni pronunciate dai Tribunali di Milano per reati contestati come commessi nel 2020, proprio per incapacità di intendere e volere; l'esclusione della responsabilità disciplinare per comportamenti problematici in carcere, sempre a causa dei disturbi cognitivi; le conclusioni di multiple perizie medico-legali, tutte concordi nel diagnosticare un grave decadimento psichico associato alla demenza senile.

Particolarmente significativo è stato il periodo compreso tra il 9 giugno e il 21 giugno 2023, quando Morabito era stato temporaneamente escluso dal regime 41- bis per essere ricoverato in ospedale, per poi essere collocato in regime di alta sorveglianza fino al decreto ministeriale del novembre successivo che ha ripristinato il regime. Durante questi sei mesi di relativa “libertà” dal carcere duro, non erano emersi comportamenti di sorta ascrivibili al detenuto nel senso del tentativo di riallacciare contatti con la cosca o di dare ordini dal carcere.

La Cassazione ha sottolineato come questo elemento, lungi dall'essere marginale, avrebbe dovuto formare oggetto di una specifica considerazione da parte del Tribunale di Sorveglianza. Se davvero Morabito conservasse una pericolosità sociale tale da giustificare il regime differenziato, ci si sarebbe dovuti aspettare qualche segnale durante questo periodo di minor restrizioni. L'assenza totale di tali segnali rappresentava un indice probatorio di grande rilievo, completamente trascurato dai giudici di merito.

LA CONDANNA DI STRASBURGO: IL 41 BIS A RISCHIO TORTURA?

Ma il colpo decisivo alla ricostruzione del Tribunale di Sorveglianza è arrivato da Strasburgo. Nella sentenza del 10 aprile 2025, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, censurando non la detenzione in sé né le cure mediche, ma l’automatica proroga del 41 bis. I giudici hanno stigmatizzato l’assenza di spiegazioni su come un detenuto con evidente deterioramento cognitivo potesse ancora inviare ordini o mantenere legami mafiosi, e hanno messo in guardia contro il rinnovo meccanico di un regime nato per uno scopo ben preciso, se trasforma il regime speciale in un trattamento che lede dignità e salute.

Ora, visto che il governo non ha fatto appello, la sentenza Cedu è irrevocabile. Cosa accade ora? Spetta al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa vigilare sull’esecuzione della sentenza. L’Italia dovrà ottemperare alle misure indicate, compreso l’eventuale risarcimento e il pagamento di interessi di mora, se previsti. La mancata impugnazione presso la Grande Camera segnala che l’Italia ha accettato la sentenza. Ora il governo dovrà dimostrare sul piano pratico di rispettare gli obblighi europei. Il monitoraggio – obbligatorio e trasparente – potrà sfociare in osservazioni pubbliche da parte del Comitato dei Ministri e in richiami formali se le direttive della Corte non verranno messe in atto entro i termini stabiliti.

Era già accaduto con l’ex capomafia Bernardo Provenzano, per cui l’Italia è stata condannata con una sentenza del 25 ottobre 2018. All’epoca, la Cedu ritenne lo Stato responsabile di aver violato l’articolo 3 della Convenzione, secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti».

Il ricorso era stato presentato dall’avvocata Rosalba Di Gregorio: nonostante la grave decadenza delle facoltà fisiche e mentali, a Provenzano fu negata l’uscita dal 41 bis fino alla morte. Basti ricordare che, a causa dello stato neurodegenerativo, non fu in grado di partecipare al processo sulla trattativa Stato- mafia. A firmare il rinnovo del 41- bis per Provenzano fu l’allora ministro Andrea Orlando. E ci costò una condanna. Oggi siamo al bis. Se il carcere duro (che sulla carta “duro” non dovrebbe essere) si trasforma in strumento di tortura, rischia di perdere la sua efficacia. Un gesto formale, paradossalmente, basterebbe a salvare il 41 bis: la firma del ministro Carlo Nordio per revocare il regime nei confronti di Giuseppe Morabito.