C’è un filo invisibile, eppure pesante come una sbarra di ferro, che collega Torino a Caltanissetta. È lungo quasi 1.400 chilometri e, in questi giorni, lo ha percorso Mohamed Shahin. Ma per sparire. Shahin non è un fantasma. È l’imam della moschea Omar Ibn al- Khattab di via Saluzzo, a Torino. Vive in Italia da oltre vent’anni, ha una famiglia, un ruolo pubblico. Eppure, oggi si trova rinchiuso nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio ( Cpr) di Pian del Lago, a Caltanissetta. La sua vicenda sta sollevando un polverone che va ben oltre la cronaca locale, toccando i nervi scoperti del nostro Stato di diritto: la libertà di opinione e l’uso della detenzione amministrativa come strumento punitivo.

L’ARRESTO E IL VIAGGIO INSPIEGABILE

Tutto accade in fretta. La mattina del 24 novembre, mentre accompagna i suoi due figli a scuola hanno 9 e 12 anni - Shahin viene fermato. Il motivo è un decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. L’accusa non passa per un tribunale penale, ma per una valutazione amministrativa di “pericolosità sociale”, legata a frasi pronunciate pubblicamente durante una manifestazione pro-Palestina del 9 ottobre scorso.

Le parole che hanno innescato questa reazione sono quelle pronunciate al microfono durante un raduno a Torino: “Sono d'accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Non è una violenza”. Una frase aberrante, ingiustificabile, da respingere senza se e senza ma. Però siamo uno Stato di diritto e le espressioni, seppur infelici, non possono essere penalmente perseguite. Infatti, la Procura di Torino aveva già analizzato quelle parole. La Digos aveva trasmesso un'annotazione con le frasi pronunciate. L’autorità giudiziaria aveva archiviato la questione: non c’era alcun reato, nemmeno un’istigazione a delinquere. Shahin aveva anche rettificato le sue dichiarazioni, seguito da un comunicato congiunto delle diverse comunità religiose cittadine - cattolici, valdesi, ebrei e musulmani - contro l’intolleranza e a favore della pace. Ma questa archiviazione non ha fermato la macchina amministrativa.

Quando il ministero dell’Interno ha chiesto all’autorità giudiziaria se ci fossero ragioni contrarie all’espulsione, la risposta è stata un nulla osta. Non un’autorizzazione all’espulsione, precisano dalla Procura, ma semplicemente una risposta a una domanda specifica. Il confine tra queste due cose, nella pratica, è molto sottile.

Nonostante a Torino esista il Cpr Brunelleschi, e nonostante ci siano posti disponibili, il Ministero decide di trasferire l’imam dall’altra parte dell’Italia, in Sicilia. Una mossa che i Garanti delle persone private della libertà definiscono “discrezionale”. Perché spostare un uomo lontano dalla città in cui vive da due decenni? Perché strapparlo alla rete familiare che potrebbe sostenerlo e, soprattutto, allontanarlo dai suoi avvocati in un momento così delicato? La risposta sembra nascondersi nella natura stessa della detenzione nei Cpr: l’isolamento geografico diventa isolamento giuridico ed esistenziale.

NEL VENTRE DI PIAN DEL LAGO

Per capire cosa stia vivendo Mohamed Shahin, bisogna capire cos’è il Cpr di Caltanissetta. La struttura sorge a circa 7 chilometri dal centro della città, dentro quella che era un’ex caserma militare, ora trasformata in centro polifunzionale per immigrati. È l’unico posto in Italia dove convivono tre diverse tipologie di centri: un Centro di Accoglienza, un Centro di Permanenza per il Rimpatrio e un Centro per Richiedenti Asilo. Tutti nello stesso perimetro, per un totale di 552 posti.

Le inchieste e i report di associazioni indipendenti descrivono la struttura di Pian del Lago come un luogo al limite della vivibilità. Non è un carcere, ma è peggio. Chi vi entra non sconta una pena stabilita da un giudice per un reato commesso; attende solo un’espulsione che potrebbe non arrivare mai.

La storia del Cpr di Caltanissetta è segnata da chiusure, riaperture, rivolte violente e incendi. Istituito nel 1998, è stato chiuso una prima volta nel 2000, poi di nuovo nel 2009 per tre anni dopo gravi danneggiamenti durante una rivolta. Riaperto nel 2012, è stato nuovamente chiuso nel 2018 a causa di un incendio doloso. L’ultima riapertura risale a maggio 2021, e da allora si sono registrati numerosi tentativi di evasione, alcuni con esiti drammatici.

Le testimonianze raccolte all'interno disegnano un quadro agghiacciante. Video diffusi nei mesi scorsi mostrano una struttura fatiscente, inadatta a ospitare esseri umani. La parte dedicata alle camerate è sporca, abbandonata. Nel febbraio 2024 è emerso che diversi detenuti erano stati costretti a dormire all’aperto, in pieno inverno, perché parte dei padiglioni era inagibile. La sala mensa è in cattive condizioni: non è riscaldata, molte finestre sono prive di vetri, i rubinetti per l’acqua potabile non funzionano. I padiglioni per il pernottamento sono collegati da un lungo corridoio ai bagni e alle docce, per lo più fuori uso. L’area del Cpr è circondata da un’alta recinzione di almeno dieci metri, muri di cemento, filo spinato, telecamere e luci accese ventiquattro ore su ventiquattro.

“NON SI CONDANNA UN'OPINIONE”

Il cuore della battaglia condotta dalla Conferenza dei Garanti territoriali è giuridico e culturale. Il portavoce Samuele Ciambriello è netto: “Non si può condannare un uomo per un’opinione”. Se Shahin ha commesso un reato pronunciando quelle frasi, deve essere giudicato. Ma il luogo per stabilirlo è un’aula di tribunale, non un centro per il rimpatrio.

I Cpr non sono luoghi di giudizio. Usarli per “punire” espressioni del pensiero, per quanto controverse, aggira le garanzie costituzionali. In uno Stato di diritto, le accuse si valutano nelle sedi competenti, dove esiste il contraddittorio, dove ci sono prove e sentenze, non decreti amministrativi eseguiti nel silenzio.

C’è poi un’urgenza che rende ogni ora dirimente. Se l’espulsione venisse eseguita, Shahin verrebbe rimandato nel suo Paese d’origine (l’Egitto, secondo le cronache recenti). Ma qui scatta un altro allarme rosso sollevato dai Garanti: il principio di non-refoulement. Gli standard internazionali vietano di trasferire una persona in un luogo dove la sua incolumità potrebbe essere a rischio, dove potrebbe subire trattamenti inumani o tortura. Di fronte a questo scenario, la mobilitazione è arrivata ai massimi livelli istituzionali. Il Portavoce della Conferenza dei Garanti ha preso carta e penna e ha scritto direttamente al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e all’Ufficio del Garante Nazionale. Si chiede un intervento per fermare una procedura che sembra calpestare i diritti fondamentali: il diritto alla difesa, il mantenimento dei legami familiari e la tutela dall'arbitrio.

La storia di Mohamed Shahin è la punta dell'iceberg. Ci racconta di un sistema, quello dei Cpr, che ingoia le persone e le sposta come pedine su una scacchiera, rendendo difficile, se non impossibile, esercitare quei diritti che sulla carta sarebbero garantiti a tutti, “indipendentemente dalla condizione giuridica”. Mentre Shahin attende a Caltanissetta, a 1.400 chilometri dalla sua Torino, la domanda che i Garanti pongono resta sospesa nell’aria: siamo disposti ad accettare che la libertà personale venga limitata senza un giusto processo, in luoghi opachi e lontani dagli occhi della società civile?