Dici “russo” oggi di qualcuno, di qualcosa, e suona come un insulto. I russi sono oligarchi, i russi sono aggressivi, i russi sono imperialisti – gli ultimi degli imperialisti – e odorano di incenso ortodosso che ti rimane addosso sui vestiti.

Sono volgari, pacchiani, arroganti, brutali, mafiosi. Comprano tutto quello che possono e dove non possono riescono a convincere in altri modi; si ubriacano e sono sempre in mezzo a un mare di ragazze poco più che schiave di una qualche tratta balcanica; i loro atleti sono tutti dopati; i loro soldi finiscono sempre nelle banche più discutibili – a Cipro, in Grecia – o li ripuliscono nella City di Londra. I russi hackerano tutto: le email americane soprattutto. I russi spiano dappertutto. I russi producono e vendono armi ovunque e a chiunque, e mettono sul mercato pure plutonio, testate nucleari e vecchi missili intercontinentali. I russi hanno il gas e ci tengono per il collo, soprattutto quando fa tanto freddo; costruiscono i gasdotti che vogliono loro e come li vogliono loro – e mettono a libro paga ex ministri e ex primi ministri di tutta l’Europa e uomini d’affari americani per aggirare ogni embargo. I russi ti ammazzano per strada con una puntura di spillo imbevuto di polonio e non c’è modo di verificarlo; oppure ti inoculano lentamente per anni un veleno e poi una mattina ti svegli e sembri l’uomo elefante. I russi ammazzano i giornalisti coraggiosi; i russi arrestano chiunque dissenta, se scrive un manifesto, se prende un microfono in una piazza, se fa una vignetta irriverente, se canta una canzoncina irrispettosa; i russi ti sbattono in galera e buttano la chiave o ti mandano in Siberia e ti ritroveranno fra duecent’anni nel permafrost. I russi bombardano tutto ciò che si muove, donne, bambini, ospedali, civili: i russi non badano agli ostaggi se presi dai terroristi – ammazzano gli uni e gli altri. I russi avvolgono nel mistero tutto quello che qui sarebbe sulla pubblica piazza, perché hanno sempre qualcosa da nascondere. I russi non amano la libertà e la democrazia; non sanno neppure cosa significhino i diritti umani. I russi sono antisemiti. I russi sono panslavisti. I russi non hanno mai smesso di considerare l’Europa dell’est come cosa loro. I russi minacciano le repubblica baltiche. I russi vogliono lo sbocco sul Mediterraneo. I russi sono asiatici e disposti per natura al dispotismo. I russi vogliono sempre uno zar. I russi sono un pericolo.

Queste affermazioni non sono tratte da un qualche articolo di un qualche esponente della nouvelle philosophie, che si incarica di ammonirci e stare all’erta e non sottovalutare, anche se l’una o l’altra la potresti ritrovare, ma sono ormai espressioni di un senso comune. E non è che, presa una per una, siano affermazioni peregrine.

Però, della Russia oggi abbiamo due letture, una di banalizzazione del male e l’altra di banalizzazione del bene – e sono letture trasversali, si è russofili o russofobi a destra come a sinistra. Del male, s’è già detto. La banalizzazione del bene starebbe nel fatto che la ripresa nazionalista e imperialista sotto la guida di Putin che ha restituito alla Russia orgoglio e peso geopolitico, dopo lo sfacelo dell’era Eltsin, servirebbe a impedire che l’America faccia quello che vuole del mondo: c’è qualcuno, là fuori, che può alzare la voce e farsi sentire e non si fa mettere i piedi in testa. Perciò: viva Putin, comunque.

La verità è che della Russia oggi non conosciamo niente. Non sappiamo come vivono i suoi lavoratori, i suoi impiegati, i suoi medici, i suoi insegnanti; le loro buste paga, le loro carriere, le loro gerarchie. Non sappiamo cosa succede nelle loro fabbriche, nelle campagne, negli immensi quartieroni urbani. Non abbiamo idea di quanto sia il valore d’una pensione media. Di quanto sia il valore del loro paniere, se ne hanno uno. Non sappiamo cosa pensano i loro militari, i cadetti. Non abbiamo la più pallida idea del livello delle loro università, della loro ricerca scientifica, delle loro medicine e delle loro cure. Non sappiamo più nulla della letteratura russa, delle loro accademie, nulla dei loro artisti. Non conosciamo i loro programmi alla radio, né quelli della televisione. Non vediamo i loro asili- nido, o le loro case per anziani, le loro scuole, i loro giovani studenti, né sappiamo le loro mode, il loro gergo.

Tra noi e la Russia c’è un sipario. Che viene strappato solo per situazioni eccezionali, le guerre – l’Afghanistan, la Cecenia, l’Ucraina e la Crimea –, qualche clamoroso attentato – le vedove nel teatro o le bombe nella metro di Mosca –, qualche clamoroso assassinio politico – la Politkovskaja, in patria, o Litivenko all’estero –, qualche sbrasata di uno dei suoi oligarchi – per tutti, l’Abramovich con il suo Chelsea e il suo yacht da primati o quel santarellino di Khodorkovsky, per dieci anni in carcere e ora alla ricerca di un ruolo politico di opposizione.

La Russia, insomma, è sempre Chernobyl.

È come se ci avessero deluso – dopo essersi scrollato di dosso quell’orribile regime comunista, però non ci avessero mai amato davvero. Un po’ la parabola di Solženicyn, adorato dall’occidente finché stava in Siberia e scriveva di Arcipelago Gulag; poi se n’è venuto in America, e dopo qualche anno s’è dichiarato schifato del capitalismo e ha voluto tornare dalla Grande Madre Russia – tra incensi e nazionalismi. Puah.

I russi, insomma, non sono come noi li vorremmo e sono esattamente come noi temiamo che siano, è un po’ questo lo spettrografo attraverso cui li guardiamo. Eppure, non sempre è stato così, anzi la Russia era nel cuore degli europei. Tutta la grande ondata delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento ha a cuore la sorte della Russia. Tutte le grandi rivoluzioni del Novecento hanno a cuore la Russia. E i russi – i grandi romanzieri dell’Ottocento – guardano all’Europa, al romanzo europeo. E i rivoluzionari russi, i bolscevichi, ma anche i menscevichi e tutti gli altri, anarchici, socialisti rivoluzionari, guardano all’Europa, si aspettano l’Europa, perché si diffonda il riformismo socialdemocratico o perché si prenda il Palazzo d’Inverno. L’intellettuale russo è europeo – parla il tedesco e il francese –, ma lo è anche l’aristocratico – parla il tedesco e il francese – e l’operaio.

L’Impero zarista entra nella Prima guerra mondiale da potenza europea; l’Unione delle Repubbliche sovietiche entra nella Seconda guerra mondiale da potenza mondiale, ma salva l’Europa a Stalingrado.

Per tutti gli anni Trenta, gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali francesi e gli intellettuali inglesi andavano a Mosca – ci andavano Gide e Sartre ma anche il gollista Malraux e il già fascistizzante Malaparte, e ne stilavano reportage, chi entusiasta chi disgustato. Ma il legame di quest’Europa con la Russia era ancora saldo – tutto ideologico, ma saldo.

È a Yalta – dove Roosevelt e Churchill e Stalin si spartiscono il mondo – che l’Europa si divide e l’europea Praga, l’europea Budapest, l’europea Bucarest diventano qualcosa che non conosciamo più, non capiamo più, distanti, lontane, in un altro tempo e spazio. Tutto questo improvvisamente si frantuma con il crollo del Muro di Berlino e quella straordinaria e tragica figura che è Gorbaciov. Ma quello che prevale da noi, dietro l’allegrezza di facciata, è un sentimento di vendetta: ci avete fatto penare per tanti anni, adesso ve la faremo pagare, intanto ci somiglierete, anzi prenderete il peggio da noi, e ben vi sta.

Finché arriva Putin. E adesso, con Trump, le cose peggiorano. Perché Trump difende l’idea che non ci sia niente di male a avere ottimi rapporti con i russi. Solo che lui è l’America. E se l’America ha buoni rapporti con i russi, vuol dire che la cosa si mette male per noi europei. Qui stiamo. Sentiamo quasi il rumore dei cingolati russi, di nuovo, come a Budapest, come a Praga. Sarebbe il caso che ci diamo una regolata. La Russia è Europa. E non c’è Europa senza la Russia.