La vera questione etica è quella che viene prima: prima dei commenti, dei tweet, dei post su facebook. È possibile che si commentino fatti così importanti, come quello della morte di una ragazza sofferente, senza neanche aver verificato bene la notizia, senza averla conosciuta...

La vera questione etica è quella che viene prima: prima dei commenti, dei tweet, dei post su facebook. È possibile che si commentino fatti così importanti, come quello della morte di una ragazza sofferente, senza neanche aver verificato bene la notizia, senza averla conosciuta, senza sapere che cosa provava, che cosa hanno provato i suoi genitori, le sue sorelle, i suoi fratelli? Possibile che senza conoscere bene i fatti ci si senta in dovere di giudicare, di sentenziare, di stabilire il confine per gli altri del bene e del male?

La storia di Noa a me lascia basita per queste ragioni. È una parabola perfetta del meccanismo di cui siamo succubi e che funziona più o meno così: una notizia mal data dai media tradizionali (senza alcuna verifica delle fonte), la sua diffusione sui social, migliaia e migliaia di utenti che la commentano, pardon: che emettono una sentenza sull’episodio in questione. Più che discutere si giudica, più che capire si infliggono anni di galera, più che elaborare una questione così delicata si preferisce linciare (i genitori). Ma ripercorriamola questa catena che conduce ai giudizi sommari e alla cattiva informazione.

In origine ci sono giornali e tv. Spesso quando sentiamo parlare di fakenews pensiamo alle bufale che vengono proposte sui social da siti spesso anonimi. Fosse solo così ci sarebbe da preoccuparsi ma non da disperarsi. Purtroppo invece la fakenews riguardano anche l’informazione tradizionale. Nel caso di Noa, la prima notizia, quella che ha attirato l’attenzione suscitando le polemiche, era che la sua morte fosse un caso di eutanasia.

Un’eutanasia a cui il governo olandese, attraverso la commissione preposta, aveva dato l’ok. Solo dopo l’intervento di Marco Cappato, cioè 24 ore dopo, si è chiarito che non si è trattato di eutanasia, non è prevista per i minorenni. La giovane Noa, che aveva subito due violenze sessuali a distanza di anni e che soffriva di anoressia e depressione, si è lasciata morire smettendo di mangiare e bere. I genitori, è il racconto che è emerso dopo, hanno più volte ricorso anche all’alimentazione forzata. Ma questa volta, la volta in cui Noa è morta, hanno accettato la sua ferrea volontà.

La confusione con l’eutanasia continua a permanere, viziando il dibattito. Temi così delicati e divisivi richiederebbero ben altra attenzione da parte di chi fa informazione. In generale notizie così sensazionali andrebbero sempre prese con le pinze e sottoposte a tutte le verifiche possibili e immaginabili. Se questa attenzione vale per l’utente facebook, ancora di più dovrebbe essere una sorta di comandamento per chi è giornalista professionista. Ma nessuno dei giornali italiani il giorno dopo ha fatto “mea culpa”, sottolineando la propria negligenza. La smentita di Cappato è stata riportata come se nulla fosse accaduto. La responsabilità è sempre degli altri, mai la nostra.

Il secondo anello della catena è l’utente dei social. Il tema della vita e della morte scatena discussione e commenti. C’è da capirlo. Il problema è ragionare su come avviene il dibattito. Più che un confronto, si procede per anatemi. In questi giorni sul caso di Noa si è letto di tutto: i genitori l’hanno abbandonata, l’hanno lasciata sola, nessuno l’ha capita. Lo sgomento è comprensibile. Ciò che invece è difficile da capire è la facilità con cui le persone si sentono in dovere di giudicare la vita degli altri senza conoscerla, senza sapere il grado di sofferenza o l’impegno che in quella vicenda hanno profuso.

La morte di una giovane donna non può che destare dolore. Su questo nessuno ha dei dubbi. La contrapposizione, vi prego, non è certo tra chi difende la vita e chi invece no. Né si tratta di arrogarsi il diritto o il dovere di dire se la scelta di Noa sia stata giusta o sbagliata. Non siamo qui per stabilire la verità, per costruire dogmi anche sull’esistenza di una persona su cui abbiamo letto la notizia sbagliata. La domanda da porsi è se il dibattito social, così come si è sviluppato, aiuta a creare un “senso comune” su tematiche tanto delicate ma sempre più impellenti in una società ad alta tecnologia medica o se, al contrario, non si crei un senso di confusione che produce solo rabbia, disinformazione, incapacità di ascolto.

No, non me la sento di entrare a gamba tesa nella vita di una famiglia che non conosco, di dire la mia sulla sofferenza altrui. Non è relativismo, non è lavarsi le mani davanti a una vicenda tanto importante. È esattamente il contrario: rispetto e amore per la vita, anche quella degli altri. Ma una cosa la voglio dire anche sul merito della questione. Più passano gli anni e mi occupo da cittadina e da giornalista di questioni legate alla bioetica, più rispetto tutte le posizioni. Ma proprio perché le rispetto penso che lo Stato debba garantire a tutte le persone l’autodeter-minazione e la libertà di scelta. Per il resto discutiamo, anche animatamente, ma civilmente e a partire dai dati di realtà.