La pax zingarettiana ancora regge, o meglio copre i movimenti nascosti dietro il velo di quella che il segretario Pd continua a chiamare «l’unica coalizione possibile». Se apertamente nessuno dei dem mette in discussione l’attuale assetto dell’Esecutivo, è altrettanto chiaro a tutti che la Fase 2 è ormai anch’essa alle spalle e che il Paese ha bisogno di un governo che si intesti il rilancio: ora o mai più. E a manifestarlo sono i sussulti nei sondaggi, che dopo aver premiato la lealtà dem, oggi tornano a scendere assestandosi tra il 19 e il 20%. Segno che la fiducia degli italiani nei confronti dei partiti sta tornando a vacillare, di pari passo con l’aumento della litigiosità tra alleati. Del resto, è chiaro a tutte le parti in causa che i nodi arriveranno presto al pettine sotto varie forme: la più pericolosa, il Mes; la più complessa, la riforma della giustizia.

Proprio in vista della Fase 3, le strategie interne ai dem rischiano di divergere. Da una parte c’è il polo del segretario Zingaretti, esterno al governo e dunque meno assuefatto ai difficili equilibri del compromesso giornaliero. Il segretario, nel cementare la maggioranza e lo stesso Conte, ha ribadito però in direzione come serva un «cambio di passo» per «fare l’Italia nuova» e indicato proprio nel Mes la strada vincente oltre che necessaria per far ripartire il Paese. La strategia è lineare: nessun cambio al vertice, ma il premier scelga la via ragionevole indicata da Bruxelles e da un alleato che si è dimostrato più degno di fiducia rispetto ai grillini. Altrimenti - è il non detto del segretario - anche il Pd potrebbe maturare altre valutazioni. La linea dovrebbe convincere la maggioranza del partito, ma soprattutto i parlamentari. In molti, durante il lockdown, hanno lamentato il commissariamento di Camera e Senato in favore di un decisionismo a base di task force tutto incentrato sul governo. Ora, dunque, è il momento di rimettere al centro il dialogo tra forze in Parlamento e archiviare del tutto la fase dei dpcm. Basta passi avanti individuali o tentazioni di prendersi la scena, è il messaggio a Conte, che non più tardi di qualche giorno fa aveva provato a lanciare in autonomia gli Stati generali dell’Economia, subendo pubblica reprimenda da parecchi notabili dem, dal ministro Roberto Gualteri al vicesegretario Andrea Orlando. Sul Mes, inoltre, Zingaretti trova anche la sponda dei renziani di Italia Viva ( che stanno silenziosamente facendo da pontieri anche con Forza Italia), con i quali è pronto a gestire il timone della ripartenza grazie ai prestiti europei che i grillini disdegnano.

Un segretario che torna a dettare la linea politica, tuttavia, rischia di finire in rotta di collisione con l’abile tessitore al governo, Dario Franceschini. Perfettamente sincronizzato coi delicati meccanismi del governo, dove è capodelegazione dem, il ministro della Cultura si starebbe convincendo che Conte potrebbe diventare un pericolo. I sondaggi lo danno al 14%, se fondasse un partito oppure diventasse leader di una forza già esistente e i voti verrebbero tutti sottratti al bacino dem e grillino. Una emorragia che potrebbe crescere insieme alla continua esposizione mediatica dell’avvocato del popolo, il quale ha mostrato in più di un’occasione eccessivo autonomismo. Dunque la exit strategy cui Franceschini starebbe lavorando per restituire Conte alle nebbie ( smessi i panni del premier, Conte non avrebbe nemmeno uno scranno da parlamentare su cui fare affidamento) sarebbe quella di un cambio concertato coi grillini a Palazzo Chigi. Una mossa del genere - è il ragionamento del ministro - cementerebbe ulteriormente l’alleanza ormai strutturale con il Movimento e potrebbe addirittura portare al vertice un premier targato Pd. La battaglia di potere che si sta consumando in casa 5 Stelle non permette certo ai pentastellati di individuare un nome gradito a tutti, ma un presidente del Consiglio dem ( lo stesso Franceschini ma anche il ministro della Difesa, Lorenzo Guerrini) con Luigi Di Maio come vice sarebbe una soluzione gradita da entrambi i fronti. Anche perchè otterrebbe un doppio risultato: spegnere i riflettori sul sempre più scomodo Conte e allo stesso tempo solidificare il governo giallorosso intorno a un equilibrio senza variabile indipendente dalle forze politiche che lo compongono.

In questo, però, la linea del segretario Zingaretti e del capodelegazione Franceschini sembrano divergere profondamente. In questa dicotomia potrebbe inserirsi il solito Matteo Renzi, che alla complicata mossa di palazzo che poco o nulla gioverebbe a Italia Viva preferisce la certezza di imporre ( e capitalizzare politicamente) il sì al Mes, accodandosi alla spinta di Zingaretti. Di fronte a questi scenari tutti politici, intanto, continua a montare la rabbia sociale. Ne è consapevole il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e per questo il segretario dem indica proprio in ottobre il difficile giro di boa, chiedendo la «svolta» al governo, non in ottica di rimescolamento delle carte come vorrebbe Franceschini ma di passo avanti concreto nella messa in moto di un paese quasi fermo. Quale strategia sarà più pagante, fa parte dell’incognita.