Per un presidente del Consiglio, le ferie, generalmente, sono un concetto vago. Anche se Giorgia Meloni, sia l’anno scorso prima in Puglia e poi in un luogo segreto e quest’anno in Grecia, non ha rinunciato a spiaggia e ombrellone. Ma quando tornerà fisicamente a Palazzo Chigi ( più o meno tra una dozzina di giorni) la premier dovrà fare i conti con un’agenda politica che somiglia più a un campo minato che a una tranquilla tabella di marcia. Le insidie si muovono su due fronti: quello interno, legato ai delicati rapporti di forza nel centrodestra, e quello esterno, dove le scelte più sensibili possono compromettere un consenso che oggi appare ancora solido, ma che la storia recente dimostra essere fragile e volatile.

La parabola di Matteo Renzi, superato da Meloni nella classifica della longevità a Palazzo Chigi, è un monito: nel 2014 era al 40% nei sondaggi, una cifra certificata poi dal trionfale risultato del Pd alle Europee, due anni dopo usciva sconfitto dal referendum e di fatto dalla guida del governo.

Mario Draghi, pur con un profilo tecnico, è stato logorato dalla gestione di emergenze continue. Giuseppe Conte ha visto svanire la sua luna di miele con gli italiani con la seconda ondata del Covid. E Matteo Salvini, che non era premier ma ministro dell’Interno, ha pagato carissimo il passo falso del Papeete quando la Lega era sopra il 30%. Nessuno è al riparo.

Il primo banco di prova per Meloni sarà certamente la partita delle Regionali. In Veneto, il governatore Luca Zaia punta a una sua lista personale, mossa che Fratelli d’Italia giudica ostile perché rischia di erodere consensi e rafforzare la leadership di un alleato già ingombrante. Non è un semplice capriccio locale: se il modello Zaia funzionasse, potrebbe diventare un precedente pericoloso in altre regioni, con candidati pronti a rivendicare autonomia dai partiti di coalizione.

Parallelamente, monta una questione meno visibile ma altrettanto insidiosa: la crescente distanza tra la linea di Palazzo Chigi e quella della Lega sul dossier Israele. Mentre Meloni si allinea alle posizioni dure verso Netanyahu che arrivano da altre capitali europee, il Carroccio continua a mantenere un sostegno più marcato al governo israeliano.

Un distinguo che potrebbe diventare un’arma di pressione politica quando si entrerà nella fase calda della Legge di Bilancio, terreno sul quale Salvini ha promesso battaglia sulla pace fiscale, ormani “la madre di tutte le riforme” per l’elettorato leghista, forse anche di più dell’Autonomia, sempre più simile a una chimera.

C’è poi il capitolo giustizia, dove la maggioranza appare compatta, ma il clima si farà incandescente. La riforma deve essere approvata prima che la sessione di bilancio congeli i lavori parlamentari: in caso contrario, il referendum slitterebbe di mesi, aprendo un fronte di incertezza.

Sullo sfondo, un confronto ad alta tensione con la magistratura quando il Parlamento dovrà esprimersi sulle richieste di autorizzazione a procedere per tre pesi massimi dell’esecutivo: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, quello della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.

Meloni, in questa circostanza, non potrà limitarsi a fare da regista dietro le quinte:: sarà lei stessa a guidare l’offensiva mediatica, trasformando il caso in uno scontro politico sulla legittimità dell’azione di governo. Sul piano del consenso, la premier dovrà muoversi con prudenza chirurgica. L’immigrazione resta il tema più redditizio, ma con l’inverno gli sbarchi potrebbero diminuire e togliere al governo una leva narrativa potente. A quel punto, il dibattito rischia di spostarsi su terreni meno sicuri, come la sanità pubblica.

Liste d’attesa interminabili, pronto soccorso al collasso e personale insufficiente sono problemi che toccano direttamente la vita quotidiana degli elettori e che, finora, l’esecutivo ha tentato di affrontare con qualche provvedimento e altrettanti annunci, ma senza incidere realmente sulla situazione. Se un tema come questo diventasse centrale nel dibattito, potrebbe erodere consensi in aree sociali oggi sensibili al messaggio della destra.

L’autunno di Meloni si preannuncia, dunque, come una lunga partita a scacchi. Ogni mossa dovrà essere ponderata, evitando passi falsi che possano dare fiato agli avversari interni ed esterni. Perché, come dimostra la storia politica italiana degli ultimi anni, il consenso può evaporare più in fretta di quanto non sia arrivato. E il vero rischio, per la premier, non è solo perdere qualche punto nei sondaggi: è anche ritrovarsi, nel pieno della legislatura, a difendersi su troppi fronti contemporaneamente.