E se a Giorgia Meloni, dopo il dietro-front sul redditometro, non dispiacesse tenere a bagnomaria anche il premierato in aula a Palazzo Madama fino a dopo le Europee? Il ragionamento, che era rimasto a uno stadio latente nei giorni scorsi, ieri mattina è diventato conclamato, quando all'apertura della seduta del Senato è mancato il numero legale. Appare abbastanza ovvio che se una maggioranza indica come prioritaria l'approvazione di un provvedimento, una delle cose a cui prestare maggiore attenzione è la presenza costante in aula dei parlamentari, che è notoriamente responsabilità dei capigruppo.

Ebbene ieri, nel mezzo di una battaglia ostruzionistica ampiamente annunciata dall'opposizione, con circa tremila emendamenti presentati e l'utilizzo di tutto il tempo a disposizione per i propri interventi, è arrivata una falsa partenza che ha ulteriormente ritardato i lavori e ha innescato i giudizi sarcastici del centrosinistra sulla coesione del centrodestra, per quella che la presidente del Consiglio ha definito la «madre di tutte le riforme». È chiaro che qualcosa non torna, visto che si tratterebbe del primo via libera a un ddl costituzionale che ne ha bisogno di ben quattro, di cui gli ultimi due con una maggioranza di tre quinti dei parlamentari, se non si vuole passare per il referendum confermativo, peraltro inevitabile con gli attuali numeri.

Ogni giornata persa, di fronte alla montagna rappresentata da questo tipo di iter, potrebbe essere fatale per il destino della riforma, e inciampare su una cosa come il numero legale rappresenta una colpa grave. A meno che, a Palazzo Chigi, abbiano messo in conto lo slittamento a dopo le elezioni dell' 8 e del 9 giugno, per una serie di considerazioni che attengono sia alla pax interna della coalizione che al rush finale della campagna elettorale. I rumors più maligni del Palazzo vedono sull'incidente del mancato numero legale le impronte digitali della Lega, e al di là della libido da retroscena, la cosa appare compatibile con la realtà, per il fatto che il Carroccio ha dovuto già accettare lo slittamento dell'approvazione definitiva del ddl Calderoli sull'Autonomia differenziata a dopo le Europee, ottenendo solo il suo approdo in aula a Montecitorio. Se è vero quanto detto negli ultimi mesi, e cioè che i due provvedimenti dovevano andare in parallelo in questa fase pre- elettorale, ne consegue che lo slittamento del premierato non è visto, dalle parti di Piazza Colonna, come una iattura. Ma c'è di più: in un momento in cui ogni atto politico del governo e della maggioranza vengono passati al vaglio dell'impatto che possono avere in termini di consenso elettorale (e la vicenda del redditometro ne è la conferma inoppugnabile), non fornire all'opposizione argomenti efficace a ricompattare il popolo della sinistra nemmeno sul terreno della difesa della Costituzione e dell'unità del Paese potrebbe essere una strategia non casuale.

Meloni ha certamente preso nota del fatto che il Pd ha chiamato in piazza i suoi elettori per il 2 giugno, giorno della Festa della Repubblica, per una grande manifestazione contro premierato e autonomia, per la difesa della Carta, che sarebbe probabilmente più efficace con la riforma già votata. La premier dunque non sarebbe dispiaciutissima, Salvini sarebbe contento perché oggi incassa anche il “suo” decreto che sana i piccoli abusi all'interno degli appartamenti, quindi tutto si direbbe sistemato. Inoltre, sempre con un occhio al sentimento dell'opinione pubblica, domani la premier riceverà a Palazzo Chigi il primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese Mohammad Mustafa, emissario del presidente Abu Mazen, per rimarcare una presa di distanza da un Benjamin Netanyahu sempre più isolato e rilanciare la linea dei “due popoli due stati”.

In questo schema, la riforma della giustizia, con la separazione delle carriere, rimane un po' tra le linee: dopo essersi esposta fino ad annunciarla pubblicamente in un'intervista, sembra veramente difficile che Giorgia Meloni possa mettere tra parentesi l'ok del governo a questo ddl costituzionale, soprattutto se si considera che si tratta del provvedimento- bandiera di Fi, che non ha ancora incassato nulla, a differenza della Lega, e che un rinvio aprirebbe una faglia in maggioranza. Resta però da vedere con quale mood la premier e il guardasigilli illustreranno la riforma nel Cdm che la licenzierà ( previsto per il 29 maggio): se cioè prevarrà la prudenza e si sottolineerà il carattere preliminare e aperto di un testo che dovrà fare una strada lunghissima, o se prevarrà la voglia di metterne in evidenza l'urgenza e le storture del nostro sistema- giustizia, andando senza timore allo scontro con la magistratura organizzata e i suoi referenti politici.