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Tommaso Labate sul Corriere della Sera ha attributo a Silvio Berlusconi questo commento vedendo in televisione la cerimonia del giuramento dei ministri al Quirinale: «Mi sembra di rivedere la squadra giovanile del mio governo del 2008. Meloni, Fitto, Calderoli, Crosetto, Santanchè, Urso e poi Bernini, che arrivò dopo… Diciamo che quella era la Primavera e ora sono arrivati in prima squadra». E’ la stessa impressione, ma in negativo, avvertita da vecchi e nuovi avversari di Berlusconi. Che hanno rimproverato a Giorgia Meloni, appunto, di avere in gran parte ripescato ministri delle precedenti edizioni del centrodestra invecchiati, magari passati nel frattempo da Forza Italia ai fratelli d’Italia subentrati alla destra di Gianfranco Fini. Anche il professore Franco Cardini, di destra, ha lamentato in una intervista al Fatto Quotidiano «uno scarso ricambio nella classe dirigente dei partiti», dove in questi anni si sono «confusi semplicità e semplicismo», come anche «in gran parte della nostra stampa». Oltre a quel commento iniziale, con tanto di virgolette, Labate ha attribuito a Berlusconi la decisione di partecipare personalmente al dibattito sulla fiducia al Senato per ribadirlo. E al tempo stesso per reclamare, a suo modo, in vista delle nomine dei vice ministri e sottosegretari, compensazioni a ciò che al suo partito sarebbe stato sottratto a livello di ministri fra mancate nomine o postazioni minori rispetto a quelle richieste. Che ci siano d’altronde problemi nel centrodestra pur “continuo” rispetto a 14 anni fa, lo ha riconosciuto - parlandone a Libero - l’ormai ex deputato Valentino Valentini ma tuttora fidato consigliere di Berlusconi. «A ogni governo che parte - ha detto - si augura la massima durata. Così com’è composto, ha tutti i requisiti per poter lavorare per il Paese. La tenuta dipende dalla coesione che la Meloni riuscirà a creare con la sua compagine governativa e dalla rapida ricomposizione delle inevitabili fratture all’interno dei partiti che lo sostengono, provocate da aspirazioni frustrate che sono anch’esse effetti collaterali del processo di formazione, ma tendono poi a ricomporsi”». Non so, francamente, se in questo ragionamento del consigliere di Berlusconi ci sia più fiducia nella “ricomposizione” o più minaccia nel caso in cui la presidente del Consiglio - mi permetto di chiamarla così, anche se lei preferisce che se ne parli al maschile o neutro - non dovesse volere o riuscire a creare la “coesione” attesa ad Arcore e dintorni. Minacciosa, del resto, è anche la posizione assunta dalla Meloni quando, alle prime sortite a dir poco polemiche, o di disturbo, di Berlusconi ha reagito nei giorni scorsi chiedendosi abbastanza pubblicamente se qualcuno non volesse tornare al voto, con un altro turno ben più anticipato di elezioni rispetto a quello del 25 settembre scorso. C’è qualcosa comunque che non torna nella continuità avvertita da Berlusconi, che la vorrebbe completata o rafforzata nel percorso del governo. Credo che non abbia torto il professore Marco Tarchi nel sostenere, come ha detto in una intervista al Giorno, Nazione e Resto del Carlino, che in Giorgia Meloni e nel suo governo ci sia «un mix di conservatorismo e nazionalismo che promette cambiamenti radicali del Paese, ma difficilmente» la premier «si scosterà dalle linee tracciate da Draghi», puntando «a dare un’immagine rassicurante di fronte alla crisi». Chi ha seguito per televisione l’accoglienza ricevuta, e ricambiata, da Giorgia Meloni a Palazzo Chigi sino al passaggio della campanella del Consiglio dei Ministri dalle mani di Maio Draghi alle sue, dopo novanta minuti di colloquio per consegne ancora più consistenti, non può non avere rilevato una continuità di segno opposto a quello avvertito o attribuito a Berlusconi. La continuità, piuttosto, è rispetto al governo Draghi, cui pure la Meloni nella scorsa legislatura si era opposta, salvo sul versante tutt’altro che secondario della politica estera, e della guerra in Ucraina. Un governo, quello di Draghi, nel quale i tre ministri entrati in rappresentanza di Forza Italia sono usciti dal partito -e insultati come traditori e ingrati- quando Berlusconi e Salvini gli hanno negato l’ultima fiducia. Segni visibili di continuità del nuovo governo rispetto al precedente si avvertono anche nella conferma, anzi nella promozione del leghista Giancarlo Giorgetti da ministro dello Sviluppo Economico a ministro dell’Economia e nel passaggio di Roberto Cingolani-Attila, secondo Il Fatto Quotidiano- da ministro della transizione ecologica a consigliere di Palazzo Chigi, con la Meloni, per la stessa materia comprensiva della crisi energetica. Non parliamo poi del lavoro svolto dietro le quinte da Draghi in persona, d’accordo con Sergio Mattarella, per consentire l’esordio della nuova premier sul versante internazionale incontrando a Roma il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron.