L’interrogativo giusto non è che fine ha fatto Matteo Renzi. L’ex premier si è preso due- tre settimane sabbatiche che scadono a fine settembre, e se qualcuno gli rimprovera l’assenza pare già di sentirlo squadernare l’arguzia che lo contraddistingue per motteggiare che quando imperversa lo accusano di voler fare l’Uomo Solo al Comando mentre quando sparisce gli spiegano che la sua leadership è al tramonto. «E’ il giochino della politica. Ma io lo conosco e non ci faccio caso», replicherebbe.

A ragione. E infatti la domanda più pertinente è un’altra: che Pd ritrova il segretario nel momento in cui si appresterà a rioccupare la sua scrivania al Nazareno? Qui l’ironia è meno consigliata perché in effetti, almeno visto dall’esterno, il corpaccione del partito ricorda più il caos primordiale che la calma siderale dello spazio profondo. E’ un bene o un male? Dipende dai punti di vista. Diciamo comunque che la sensazione è che l’entropia è in crescita e l’ex sindaco di Firenze appare sempre più in difficoltà a governarla o, ancora più complicato, respingerla.

Prendiamo Paolo Gentiloni. E’ innegabile che il premier, partito volutamente in sordina e in «assoluta continuità» con l’azione del suo predecessore, per forza di cose abbia via via conquistato spazio. Rafforzando la sua immagine e il suo profilo di premiership. Così, salvo colpi di scena peraltro per nulla ricercati, la riforma elettorale che doveva essere il punto di sintesi politica più importante, la medaglietta di maggior valore che Renzi potesse appuntarsi sul petto, è finita nel burrone dei veti e delle furbizie incrociate, mentre la manovra economica che poteva diventare la tagliola per il premier rischia di essere il suo apogeo. Come accennato l’altro ieri, è vero che l’assalto alla diligenza è pronto ai blocchi di partenza, ma è altrettanto vero che Matteo si ritrova di fronte il macigno di sempre: fin dove può spingersi nella differenziazione da palazzo Chigi senza per questo determinare inciampi che comunque gli verrebbero accollati? Per essere ancor più chiari: se l’accoppiata Gentiloni- Padoan intende destinare le scarse risorse disponibili alle facilitazioni lavorative per i giovani e Renzi invece insiste per interventi a favore dei pensionati, come finirà il possibile braccio di ferro?

Per non parlare di Marco Minniti. Il ministro dell’Interno è diventata l’icona dello stop ai flussi di migranti e addirittura spiega di aver temuto «per la tenuta democratica del Paese». Che dunque, è il non detto tuttavia facilmente intuibile, è stata evitata proprio in virtù della sua azione di contrasto agli scafisti e agli accordi stipulati con le autorità libiche. Che si tratti di un successo, è incontestabile. Come però è altrettanto incontestabile il fatto che in tanti siano insorti rimproverando ” alla sinistra” e cioè comuqnue al leader del Pd scarsa o nulla sensibilità per il dramma dei profughi, consentendo che fosse ammainata la bandiera della solidarietà e dell’accoglienza.

C’è chi potrebbe ribattere che proprio quella bandiera è stata impugnata da un altro esponente del governo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Sicuro, come no. Tuttavia è un fatto che il confronto si sia svolto tutto all’interno dell’esecutivo e sia Minniti che Delrio hanno avuto buon gioco a sostenere le rispettive ragioni. E Renzi? Un paio di dichiarazioni e basta così. Niente sugli sgombri di via Curtatone, sulle braccia da spezzare, sugli idranti usati contro donne e bambini. E neppure sulle bombole di gas scagliate contro gli agenti, o sui commerci che nel palazzo occupato avevano luogo e che si rivelano sempre più squallidi. Si può aggiungere inoltre che l’afflato democratico del Viminale ha fatto storcere la bocca al Guardasigilli Orlando, pronto a bacchettare il suo intraprendente collega. Nodi che tocca a Gentiloni sbrogliare, non c’è dubbio. Ma il fatto che si tratti di contrapposizioni e spunti polemici comunque riguardanti ministri del Pd, con il capo del partito in atteggiamento zen, è un dato politico che non può sfuggire. E che fa riflettere.

Nè può essere sottovalutato l’ammiccamento del governatore pugliese, Michele Emiliano, esponente della minoranza interna, nei confronti dei No Vax di ispirazione grillina. O, politicamente di spessore molto più rilevante, la scelta di Dario Franceschini, anche lui ministro e anche lui come Minniti e Delrio facente parte della maggioranza renziana, di schierarsi apertamente a favore del premio di coalizione per una, a suo avviso, necessaria modifica al meccanismo elettorale: cosa di cui Renzi non vuole neanche sentir parlare.

E allora, che succederà? Ovviamente Matteo - come pure i suoi possibili competitor, occulti e palesi - è sicuro che se davvero qualcuno intendesse fargli ombra ci penserebbero i cingolati del Giglio magico o quelli del popolo delle primarie a sgombrare la strada, riducendo in poltiglia avversari e indecisi. Non c’è dubbio, infatti, che la forza di Renzi dentro al partito è immutata e che se, per pura fantapolitica, dovessero rifarsi primarie per la leadership, lui vincerebbe contro chiunque e sicuramente alla grande.

Ciò non toglie un oggettivo ispessimento degli ostacoli sul percorso renziano di qui a fine legislatura. A cominciare dal sussurro di guerra che lanciano i suoi fan: dopo la legge di Stabilità nient’altro, la legislatura è chiusa. Proprio mentre Gentiloni e Franceschini rilanciano l’impegno a varare lo ius soli. Al segretario occorrerà un colpo d’ala per riprendere in mano il bastone del comando: non c’è alternativa, pena la messa in mora. Ma dovrà stare ben attento a scegliere il terreno sul quale dare battaglia. Sempre più il Pd assomiglia ad un vulcano pronto ad esplodere. Se erutta, cenere, lapilli e lava potrebbero ricoprire perfino un cavallo di razza come lui.