C’è voluto un giorno e mezzo – e un pressing trasversale – perché Elly Schlein pronunciasse parole di sostegno nei confronti del sindaco di Milano Beppe Sala, finito nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta milanese sull’urbanistica. Un tempo che, nella stagione della comunicazione istantanea e della politica sempre-on, equivale a un’eternità. E che racconta molto del travaglio interno a un Partito democratico sospeso tra l’ansia da accerchiamento e la paura di rompere equilibri precari con i Cinque Stelle, tanto a Roma quanto nei territori.

Il caso giudiziario che ha investito Palazzo Marino ha messo in imbarazzo il Nazareno. Non tanto per la vicenda in sé – Sala è indagato per abuso d’ufficio nell’ambito di un procedimento che appare, almeno finora, più tecnico che politico – quanto per il modo in cui la leader del Pd ha scelto di gestirlo. Prima il silenzio totale nella giornata di giovedì, poi una velina consegnata ai cronisti in serata, che riferiva di una “telefonata di solidarietà” a Sala, infine – solo ieri nel primo pomeriggio – una dichiarazione ufficiale che suonava più come un atto dovuto che come una presa di posizione convinta.

Una tempistica che stride con quella di altre figure politiche, anche di centrodestra, che hanno espresso la propria solidarietà al sindaco milanese con toni molto più netti e tempestivi. Tra i primi a farlo, il deputato di Forza Italia Enrico Costa e il ministro della Difesa Guido Crosetto. Ma soprattutto la premier Giorgia Meloni, che giovedì sera ha messo il guinzaglio agli istinti forcaioli del presidente del Senato Ignazio La Russa – il quale aveva chiesto sostanzialmente le dimissioni della giunta – difendendo il principio garantista come architrave della riforma della giustizia voluta proprio dalla maggioranza.

Una lezione di realpolitik che verosimilmente ha colto in contropiede la segretaria del Pd. Incerta se esporsi o meno, condizionata dal timore di incrinare il rapporto già fragile con il Movimento 5 Stelle, che del giustizialismo ha fatto un’identità prima ancora che una bandiera. E che, in cambio del sostegno alla coalizione del Campo Largo, pretende rigide compatibilità anche sul piano etico.

Il nodo è emerso con chiarezza anche nel dossier candidature per le Regionali: in Campania sembra ormai blindato il via libera a Roberto Fico, figura simbolo della stagione grillina; in Toscana, invece, si sono addensate nubi sulla ricandidatura del governatore uscente Eugenio Giani, esponente di quell’area riformista che i Cinque Stelle continuano a guardare con sospetto.

Schlein è rimasta così prigioniera di un equilibrio precario. L’inerzia sul caso Sala rischia però di tradursi in un boomerang politico, soprattutto per chi – come lei – si propone come alternativa alla destra anche sul terreno dei valori e della coerenza. Difendere i propri amministratori finché non ci sono condanne è il minimo sindacale in uno Stato di diritto. Ma se ci si arriva solo dopo che lo ha fatto Meloni, con toni persino più liberali, l’effetto è quello di una rincorsa maldestra.

Il vero problema è che, per non scontentare nessuno, Schlein potrebbe finire per scontentare un po’ tutti. A Milano i riformisti dem sono rimasti interdetti dal gelo iniziale del Nazareno; a Roma i parlamentari più vicini alla cultura garantista hanno fatto notare in privato che non si può oscillare ogni volta tra garantismo e giustizialismo a seconda di chi è l’indagato. E lo stesso Sala – che già nei mesi scorsi aveva preso le distanze da alcune scelte radicali della segretaria – deve aver incassato la dichiarazione con la sobrietà di chi non si aspettava certo un abbraccio caloroso.

E così il centrodestra, dopo un’iniziale sbandamento, si è stretto attorno al principio costituzionale della presunzione d’innocenza, cercando anche di usarlo come leva per evidenziare l’incoerenza del l’opposizione. Con un doppio obiettivo: mostrare compattezza sulle riforme, a partire da quella della giustizia, e scavare ulteriori solchi tra i dem e i Cinque Stelle, nella speranza che le Regionali mettano definitivamente a nudo le contraddizioni del Campo Largo. Schlein, intanto, prova a camminare sul filo, ma quanto fatto in occasione dell’inchiesta milanese non può essere certo definito il classico “capolavoro di equilibrismo”.