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MATTEO PIANTEDOSI, MINISTRO DELL'INTERNO, GIORGIA MELONI, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, ANTONIO TAJANI, MINISTRO DEGLI ESTERI
Nelle 91 pagine stilate dal Tribunale dei Ministri per sostenere la richiesta di autorizzazione a procedere contro due ministri e un sottosegretario che pesa più di quasi tutti i ministri, quel che colpisce è la sostanziale sintonia con la più concisa e furibonda replica di Giorgia Meloni. La premier difende e rivendica «la correttezza dell'operato dell'intero Esecutivo», cioè la liberazione di Almasri, in quanto dettata dalla «tutela della sicurezza degli italiani».
Secondo i giudici i ministri Pantedosi e Tajani, il sottosegretario Mantovano, i capi della polizia e del Dis Pisani e Rizzi avrebbero in apposito vertice sottolineato la preoccupazione per «possibili ritorsioni libiche». Il governo avrebbe pertanto effettivamente deciso di liberare Almasri per «tutela la sicurezza», in particolare dei 500 italiani residenti in Libia, a maggior ragione essendo allora recente il caso dell'arresto in Iran della giornalista Cecilia Sala. La preoccupazione del governo non si limitava alla sorte di quei 500 concittadini. Altrettanta se non maggiore ansia provocavano le possibili rappresaglie sull'economia e in particolare sullo stabilimento Eni- National Oil di Mellitah. Anche l'energia e i suoi prezzi, in fondo, sono questione di sicurezza nazionale. Non si capisce bene perché il Tribunale definisca «irrazionale» la scelta del governo che, casomai, può essere accusata di eccesso di realpolitik ma appare assolutamente razionale.
Meno razionale è invece l'assoluta assenza nel documento degli accordi con la Libia sull'immigrazione. Che siano stati citati o meno è comunque certissimo che la preoccupazione per la sorte di quegli accordi e per le possibili rappresaglie libiche declinate in barconi fosse a livello di allarme rosso acceso. La più temuta reazione di Tripoli era probabilmente proprio l'allentamento della sorveglianza sulle partenze e la possibile rimessa in discussione dell'intesa ( siglata per primo dal ministro Pd Minniti) in base alla quale la guardia costiera libica fa per contro nostro gran parte del lavoro sporco e soprattutto sanguinoso.
Il dossier del Tribunale dei Ministri smantella le risibili giustificazioni addotte, spesso con dovizia di contraddizioni, da Nordio e Piantedosi, secondo cui a imporre la rimessa in libertà dell'aguzzino erano stati soli anonimi vizi di forma. Ma non contrasta affatto con la versione fornita, dopo la richiesta di rinvio a giudizio, dalla premier. Anzi, i magistrati si premurano di specificare che spetta al Parlamento «valutare la rilevanza di eventuali ragioni politiche poste a fondamento delle condotte degli indagati, sì da incidere sul rilascio dell'autorizzazione a procedere». Gli stessi magistrati, dunque, riconoscono la possibilità che la decisione «irrazionale» sia stata presa in nome dell'interesse di Stato.
Non ci sono dubbi sulle mosse sgangherate con le quali il governo ha sin qui reagito allo scandalo. Non ha apposto il segreto di Stato, probabilmente per paura di indicare così l'esistenza di accordi poco confessabili con i signori della guerra libici. Ha cercato alibi e giustificazioni risibili, di nuovo per non confessare quali interessi erano in ballo. La premier non si è mai espressa personalmente in Parlamento, spalleggiando così la pirotecnica girandola di ricostruzioni addomesticate dei suoi ministri. Ma al netto di questi clamorosi strafalcioni resta il fatto che la vicenda non si può ridurre alla complicità di un governo nell'evasione di un lestofante. In ballo c'è la politica e all'opposizione converrebbe riconoscerlo invece di ridurre tutto a una questione di codici trasgrediti.
Sulla politica il governo e chi lo guida andrebbero incalzati, costringendoli a fare chiarezza una volta per tutte sugli scellerati e oscuri accordi che legano l'Italia alla Libia. Il piglio mussoliniano dell'ormai celebre post della premier non deve trarre in inganno. Giorgia Meloni afferma combattiva che rivendicherà l'operato del governo sedendosi a fianco dei ministri contro i quali è richiesta l'autorizzazione a procedere quando la Camera, in ottobre, discuterà la vicenda.
Ma se la scelta fu politica e se di quella scelta il capo del governo è primo responsabile, come la stessa premier afferma, il suo posto non è seduta accanto ai ministri ma di fronte al microfono: è lei che deve spiegare e assumersi così non solo sulla carta la responsabilità delle decisioni prese. Né ci si può accontentare della versione per cui in ballo c'era solo la sicurezza degli italiani in Libia, essendo invece chiaro che la posta in gioco era più alta e molto meno ammissibile. Su questo un'opposizione politica dovrebbe saper dare davvero battaglia.