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ANTONIO TAJANI MINISTRO
In politica ci sono momenti in cui il profilo basso diventa un rischio, più che una virtù. È quello che sta vivendo Forza Italia, stretto tra il fuoco incrociato di una campagna elettorale regionale già incattivita e un contesto internazionale che spinge a radicalizzare le posizioni. Il partito di Antonio Tajani si trova così a impersonare, quasi in solitudine, il ruolo del moderato in un tempo che sembra non avere più spazio per la moderazione e in una coalizione con due leader decisamente sugli scudi.
Il segretario azzurro, forte del doppio cappello di vicepremier e ministro degli Esteri, si affanna a ripetere parole che odorano di buonsenso: «nervi d’acciaio», cautela, equilibrio, de- escalation. Sul fronte mediorientale Tajani ha chiarito che l’Italia è pronta a riconoscere lo Stato di Palestina, ma solo a precise condizioni: l’uscita di Hamas dalla scena politica e la liberazione degli ostaggi. Non un rifiuto ideologico, bensì un appello al pragmatismo. Allo stesso modo, sul caso della Flotilla, Tajani insiste che non è forzando un blocco navale che si aiutano i civili, ma cercando mediazioni credibili.
Sono posizioni che raccontano un approccio razionale, ma che nel clima acceso degli ultimi giorni rischiano di sembrare fioche. Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno scelto la strada opposta: cavalcare l’onda emotiva scatenata dall’assassinio di Charlie Kirk e piegare la vicenda della Flotilla alla logica dello scontro politico. La premier usa i social come un megafono per accentuare la contrapposizione, adottando un linguaggio aggressivo che richiama da vicino lo stile di Donald Trump. Il leader della Lega non è da meno, alzando i toni e mostrando di voler occupare con forza la scena, anche a costo di esasperare gli animi.
Nel mezzo, Forza Italia sembra un pesce fuor d’acqua. Tajani parla di abbassare i toni, condanna le scritte minacciose e l’odio verbale contro la premier, prova a richiamare tutti a un livello di civiltà e rispetto. Ma le sue parole sembrano scivolare addosso tanto agli alleati quanto all’opposizione. E persino all’estrema destra, l’attacco di Casapound sul caso Salis mostra quanto il partito si ritrovi in posizione fragile, costretto a difendersi da chi lo accusa di “buonismo” o di complicità con i nemici.
È la trappola della moderazione in tempi di radicalizzazione. L’elettorato, almeno quello più rumoroso, chiede slogan e muscoli, non diplomazia e prudenza. E così il messaggio di Forza Italia rischia di perdersi nel frastuono. Se Meloni e Salvini alimentano lo scontro, Tajani predica calma. Ma quanti, in questo momento, sono disposti ad ascoltare un appello al realismo?
Il nodo è tutto qui: la campagna per le regionali si gioca anche sulla percezione di quale linea politica sia più efficace. La destra di governo sembra aver scelto la polarizzazione, scommettendo che l’emotività paghi più della razionalità. Forza Italia, al contrario, prova a mantenere la barra dritta su una politica estera di equilibrio e su una linea interna di responsabilità istituzionale. A dare manforte alla prudenza azzurra arriva l’intervento del Quirinale, che con i suoi richiami al rispetto e alla mediazione sembra condividere il timore per una politica che scivola nell’estremizzazione. Ma anche qui resta da capire se le parole del capo dello Stato riusciranno a riequilibrare il quadro o se resteranno voce isolata nel deserto.
Il rischio per Tajani è evidente: restare imprigionato nel ruolo scomodo del “baluardo moderato” mentre la maionese politica impazzisce. Un ruolo nobile ma potenzialmente suicida in termini elettorali, soprattutto in una tornata regionale dove l’onda lunga dell’emozione internazionale potrebbe incidere sul voto. La domanda che aleggia è semplice e brutale: gli elettori premieranno la prudenza di Forza Italia o la radicalità di Meloni e Salvini? Per ora la sensazione è che non sia un Paese per moderati. Anzi, a guardare il quadro internazionale e la deriva della politica, sembra non essere neppure più un mondo per moderati.