L’arma segreta di Matteo Salvini si chiama Marine LePen. La ha tirata fuori di sorpresa nella convention romana di Identità e Democrazia sabato scorso a Roma e il fragoroso videomessaggio della leader francese è bastato a evitare un flop altrimenti garantito. Marine Le Pen ha fatto semplicemente quel che Salvini non può fare e lo ha fatto con l'autorevolezza, almeno nell'elettorato di destra, che al Capitano è sfuggita di mano ormai da anni. Perché è la principale esponente della destra di un Paese fondatore dell'Unione, come l'Italia, e anche più importante dell'Italia. Perché è considerata una concorrente temibile a una delle poltrone chiave dell'Europa, anche in questo caso quanto e più di palazzo Chigi: l'Eliseo. E anche, in una certa misura, perché, come Giorgia, è donna. La leader del Rassemblement ha messo sul tavolo subito la questione della quale l'italiana non voleva e non vuole parlare prima delle elezioni: l'alleanza tra l'inquilina di palazzo Chigi e la presidente e ricandidata Ursula von der Leyen. Ma anche, anzi soprattutto, la disponibilità della premier italiana a votare per quella che è a tutti gli effetti la sua principale alleata nel Ppe e a Bruxelles anche qualora dovesse votare, col naso turato, allo stesso modo del Pse. Salvini non ha perso tempo nel cavalcare l'onda sollevata dall'amica d'oltralpe: «Spero che non ci sia nella coalizioni di governo chi preferisce governare con Macron e i socialisti piuttosto che con gli alleati della Lega». La premier invece si è nascosta dietro una coltre di parole. Ha detto che lei vorrebbe il centrodestra al governo anche in Europa ed è vero. Ma lo ha detto sapendo benissimo che quella possibilità è di fatto esclusa a priori: implicherebbe un'alleanza tra il Ppe e i sovranisti di Identità e Democrazia che oggi non è nel novero delle cose possibili, anche se non è affatto detto che non lo diventi nel giro di un paio d'anni. Poi la premier italiana ha argomentato che importante non è il nome del presidente della Commissione ma la maggioranza che lo sostiene ed erano chiacchiere: la maggioranza, nel Parlamento europeo, esiste nel momento in cui si vota la presidenza e solo in quello. La leader della destra italiana si prepara a dire che il voto per von der Leyen con i socialisti non significa affatto formare una maggioranza con i socialisti stessi ed è insieme vero, perché nel Parlamento europeo non si formano maggioranza stabili come in quello italiano, e finto, perché quello che a Strasburgo s'intende per maggioranza è precisamente la somma di partiti che votano la presidenza.

La posizione di Meloni non è affatto incomprensibile o rinunciataria. La premier è davvero pragmatica. Sa che una maggioranza Ursula allargata anche al suo voto, a maggior ragione se determinante come fu quello dei 5S italiani nel 2019, sarebbe una sconfitta dei socialisti, costretti a votare senza un fiato una commissione sbilanciata a destra. Sa anche che l'area di potere composta dall'attuale presidente, dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola e da lei stessa avrebbe un peso specifico enorme a Bruxelles. Si può capire che non intenda rinunciare ai vantaggi di un quadro simile, per lei stessa, per la destra e anche per l'Italia, in cambio di una posizione intransigente di bandiera.

Ma le bandiere in politica contano e a destra quanto e più che a sinistra. Con tutti i vantaggi che comporterebbe, quel voto a fianco del Pse e di Macron significherebbe anche simbolicamente la definitiva entrata di Giorgia Meloni nel mainstream europeo ed europeista: precisamente quel che le ha rinfacciato Marine Le Pen e a cui allude ormai quotidianamente Salvini, senza poterlo dire con la durezza sferzante della leader francese. Da mesi gli spifferi da palazzo Chigi fanno capire che quel prezzo Giorgia Meloni è disposta a pagarlo. Però il gioco si è fatto ora più difficile e più pericoloso. L'elezione di von der Leyen, anche ove sulla carta disponesse di tutti i voti necessari non è affatto certa. Il voto è segreto. Di nemici nel Ppe la presidente uscente ne conta parecchi. Alcune forze politiche importanti, come il partito polacco del premier Tusk, sono tutt'altro che convinte e un sostegno a von der Leyen sconfitta però dal voto segreto sarebbe per Meloni imbarazzante. È vero che a quel punto in campo ci sarebbero anche l'italiano Tajani e la maltese Metsola ma si tratterebbe di una giostra, con tutti i giochi riaperti.

La sfida sulla presidenza von der Leyen, inoltre, metterebbe sotto i riflettori la fragilità del gruppo dei Conservatori, l'Ecr. Non tutti seguirebbero la premier italiana: gli spagnoli di Vox si sono anzi già sfilati. La possibilità di un ingresso del Rassemblement francese si è arenata sul veto di Reconquete, il partito di estrema destra che tuttavia ha aderito ad Ecr proprio per il conflitto con il Rassemblement, ma anche sull'impossibilità di conciliare le posizioni sull'Europa e sulla guerra in Ucraina. L'opposizione del Pis polacco all'ingresso di Orbàn nel gruppo completa un quadro che più frammentato e lacerato non potrebbe essere. I radicali di Identità, al contrario, sono compatti su tre punti dirimenti, anche se poi al loro interno non mancano divisioni profondissime: l'antieuropeismo, la guerra in Ucraina, il rifiuto di qualsiasi alleanza con socialisti e liberali. Sono i temi sui quali avevano fatto le loro fortune i 5S, la Lega e anche, sino all'ingresso a palazzo Chigi, la stessa Meloni.

In ballo, insomma, c'è molto più che qualche punto percentuale in più alle europee, intese quasi come sondaggione nazionale. C'è il carattere della destra europea oggi all'arrembaggio. Una sfida di questo tipo sembrerebbe destinata a incidere a fondo anche sugli equilibri della maggioranza in Italia ma la destra italiana è magistrale nel gestire differenze anche profonde. Ipotizzare la crisi della maggioranza in seguito alla divisione in Europa sarebbe più che azzardato. Ma lo sarebbe anche immaginare che uno scontro di questa portata resti del tutto senza conseguenze nell'aia di casa nostra.