Un paese ci vuole, e per Angelo Bonelli è l’Amazzonia. Anche se il deputato verde si accontenta della sua Roma, dove lo incontriamo alla sera con il Buongiorno ancora indigesto. Giornata pesante: l’amico Mattia Feltri gli ha fatto notare che a furia di fare opposizione a colpi di esposti il leader di Europa Verde rischia di denunciare anche l’inutilità del Parlamento. Il fatto è che ad Angelo Bonelli il ponte sullo Stretto non gli va giù, e per questo mercoledì è andato in procura insieme ai colleghi Elly Schlein e Nicola Fratoianni per tentare con le carte bollate. Come era successo già con la “Lobby nera” in Lombardia, il caso Cospito e la strage di Cutro. E ancora: l’affaire della giudice Apostolico, lo scandalo degli extraprofitti dei colossi energetici, la pista da bob a Cortina… Insomma, la lista è lunga e ne abbiamo già scritto sul Dubbio.

Ma se ad Angelo Bonelli gli fate notare che questo tic dell’esposto gli vale la fama del “denuncia-ministri”, lui obietterà che il vero scopo della politica è rendere «servizio alla polis». Dunque il politico agisce come agirebbe il cittadino, per coscienza civica. «Sarebbe assolutamente sbagliato utilizzare la via giudiziaria come strumento di lotta politica, ma in tutte le cose che ho fatto c’erano elementi fondamentali o l’urgenza che intervenisse l’autorità giudiziaria». Come dire: certe volte non c’è altra scelta. E poi ogni caso è diverso e andrebbe studiato: «Quando si generalizza, il rischio è di non capire bene le questioni».

Per esempio, di problemi con questo Ponte ce ne sono parecchi. Per non parlare del caso Cospito-Delmastro: «Se non ci fosse stato il mio esposto, che tra l’altro ha provocato un rinvio a giudizio, a quest’ora tutto sarebbe stato derubricato. Questo è inaccettabile: forse qualcuno mi dovrebbe pure ringraziare». Al contrario, Bonelli si sente un po’ equivocato. È uno che ha quasi il record di presenze in Parlamento, ma gli dicono che passa più tempo in procura che in aula. È uno che non si risparmia sui social e in tv, e quindi lo accusano di protagonismo. Calenda gli dà del radical chic, Flavio Briatore dice che non ha mai lavorato. E invece «la mia era una famiglia molto modesta. Per pagarmi gli studi andavo a lavorare d’estate. Raccoglievo l’uva col filare basso, che ti spezzavi per 20mila lire al giorno».

Lo hanno accusato anche di patriarcato, l’ex co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi. Ed è questa la cosa che l’ha ferito di più «umanamente». Più delle minacce del clan Spada e più dell’affaire Soumahoro. «Ma non per l’aspetto giudiziario, perché da questo punto di vista l’attacco nei suoi confronti è stato una schifezza». Poi Bonelli scaccia via le amarezze con un sospiro. «So di essere un personaggio particolare e a volte mi interrogo. Ma non ho nulla da rimproverarmi, se non di essere troppo rigoroso con me stesso». L’imprinting gli viene dal papà carabiniere, che gli ha trasmesso «un forte senso per la legalità». Tanto è vero che il titolo di “magistrato mancato” non gli dispiace: «Da giovane mi chiamavano il “Torquemada del litorale”. Ma non sono un forcaiolo come qualcuno vorrebbe dipingermi». Anzi: «Credo che il garantismo sia un elemento fondamentale della nostra democrazia e va tutelato». Sarà. Quel che è certo è che Angelo Bonelli è mosso da una sincera passione, verde da sempre. E tutto quello che ha fatto lo ha pagato sulla propria pelle, a cominciare dall’attivismo al Lido di Ostia. La città dove è cresciuto per poi essere costretto a lasciarla con moglie e figlia dopo le minacce da parte della criminalità locale. Sono stati quelli gli anni più intensi, nelle strade con i volantini e il megafono. Fino a diventare presidente della circoscrizione di Ostia, negli anni Novanta, subito dopo Marco Pannella. «Arrivò lo scandalo Tangentopoli che anticipò quello di Milano, io fui eletto e cominciai i controlli sugli abusivi: c’erano tasse inevase per 10 miliardi delle vecchie lire».

Poi Bonelli è stato anche in Regione, prima consigliere, quindi assessore nella giunta Marrazzo. E dopo aver guidato i Verdi fuori dal Parlamento, ha sistemato i conti anche lì e li ha riportati dentro anni dopo con Allenza Verdi Sinistra, in tandem con Fratoianni. «Una cosa che mi ha dato grande soddisfazione». Ma ne vale la pena, rischiare? Dicevamo degli attentati subiti. Bonelli ne conta almeno tre: il secondo, il più grave, nei primi duemila. Un gran baccano sotto casa, colpi di pistola, e fuori la porta un pacco con pezzi di animali. In casa la sua compagna, futura moglie, che aspettava la bimba. «Lei mi disse: io torno in Trentino, se vuoi venire con me, bene». Ora vivono lì, nel paese di sua moglie, e a Roma il deputato ci torna solo per lavorare.

Minacce e tanti nemici. Bonelli (lui dice) sta sulle scatole a tanti. Ma che ci vuoi fare, resta un romantico. Un idealista? «Sì, ma certamente non sciocco. So bene quando fare dei passi, ivi compresi gli esposti». Troppo ideologico? «Qualcuno mi spieghi cosa vuol dire. Io mi baso sulla scienza». Liberale? «Assolutamente. Anche un po’ libertario».

Oltre a un futuro possibile per questo pianeta, Bonelli vorrebbe una legge sul fine vita, pur da credente, e accetterebbe di legalizzare la cannabis. Anche se ha fumato soltanto una volta una canna per fare colpo su una ragazza. Non è andata bene, ma lo stesso motivo lo ha spinto anche ad entrare in politica: perché c’era questo posto dove si «infrattava» col suo «primo amore, che non si scorda mai», nel verde di Malafede, tra la Colombo e l’Ostiense, ma poi viene a sapere che vogliono costruirci qualcosa e si indigna, briga, organizza, e va a segno. «Senza quell’episodio oggi non sarei parlamentare della Repubblica».

Tuttora Bonelli si indigna per un sacco di cose, e lo rivendica con fierezza nella stanchezza della politica che tira a campare. «Ho una visione romantica della politica, che a volte mi spinge a reagire di impulso…». A 61 anni Bonelli è ancora il ragazzo di allora, che attacca i manifesti contro il nucleare. È un ragazzo che sogna, soprattutto la sua Amazzonia, dove ha trascorso due anni come cooperante, tra gli indios. Ce li mostra, ha le foto sul cellulare e una appesa nello studio. Chiude gli occhi. «Siamo partiti su questo bimotore. Vedere la foresta dall’alto è stata una delle cose più belle della mia vita. Siamo atterrati dopo un’ora e mezza di volo, io, due antropologi e una guida armata di carabina. Abbiamo camminato per 40 minuti. Poi a un certo punto siamo arrivati in un grande spiazzo. Sembrava il film Mission con Robert De Niro. Non c’era vento, solo tanto sole. Ma a un certo punto la foresta ha cominciato a muoversi come se ci fosse una tempesta. E all’improvviso dalla radura sono spuntati 150 indios, della tribù Zo'é, “popolo di noi” nella lingua tupi, che poi ho imparato». Un’emozione unica, ripete Bonelli, anche se ora le notizie che arrivano da lì non sono buone, e ci soffre. «Perché sai la verità poi qual è? La passione ti fotte...».