Probabilmente nessuno, neppure una sola persona ha pensato, due giorni fa, che Mario Draghi stesse parlando del passato quando, ricordando Ugo La Malfa, ha contrapposto «il coraggio delle riforme» alla palude del «non governo». In tutta evidenza «gli sterili drammi degli scontri ideologici» ai quali alludeva sono quelli con i quali se la deve vedere lui, non quelli affrontati dallo storico leader del Partito repubblicano decine di anni fa. Era un messaggio chiaro sostanziato subito dopo dal blitz con il quale Draghi ha imposto a partiti riottosi la stretta sui controlli contro le frodi del Superbonus e contro la speculazione sui prezzi delle materia necessarie per la ristrutturazione.

Fine dell'amore tra Draghi e la maggioranza

Tra il premier e la sua maggioranza l'idillio è finito. La vicenda della legge di bilancio lo prova. Draghi ha evitato di riconvocare il Cdm, nonostante al testo votato dai ministri fossero stati aggiunti ben 34 articoli proprio per non dare modo ai partiti di tornare alla carica con le loro richieste. Il testo finale della legge distribuisce sganassoni. Ai 5S, che hanno chiesto invano (per ora) di alzare il tetto di 25mila euro Isee annui per il Superbonus degli edifici monofamiliari, le “villette”, e che non hanno preso bene neppure i controlli imposti dal premier. Alla Lega, che ha dovuto rinunciare alla sua bandiera più preziosa, Quota 100. Ma ce n'è anche per l'ala sinistra della maggioranza. La destinazione degli 8 miliardi stanziati per il taglio delle tasse dovrà deciderla il Parlamento. Ma l'indicazione del governo è di intervenire sull'Irpef dei redditi più alti e sull'Irap. Non certo quello che vorrebbero LeU e 5S, favorevoli a tagliare l'Irpef per avvantaggiare i lavoratori, o il Pd, che mira al cuneo fiscale, che premierebbe invece sia le aziende che i lavoratori stessi.

Il premier è irritato

L'irritazione dei partiti non può essere ammessa e palesata: si traduce nel muro che stanno cercando di erigere per evitare l'ascesa al Colle di un leader che ne limita più di come non si potrebbe ruolo e poteri. Ma la tensione è presente da ambo le parti. Draghi è altrettanto irritato e forse anche di più con i partiti. Le loro esigenze, le loro posizioni ideologiche invece che pragmatiche, i tentativi di difendere o avvantaggiare le fasce sociali che mirano a rappresentare (o che effettivamente rappresentano) sono nella visione di palazzo Chigi una palude che nella migliore delle ipotesi rallenta tutto, nella peggiore ingoia come sabbie mobili quella occasione storica, paragonabile solo alla resurrezione del dopoguerra, che l'Italia sta vivendo. Come Draghi non si stanca di ripetere quotidianamente.

Bruciare le tappe

Si potrebbe obiettare che i tempi della politica, e a maggior ragione della bizantina politica italiana, non possono essere quelli di un uomo dell'alta finanza. Ma Draghi ha fretta, vuole bruciare le tappe e probabilmente si tratta di un esigenza che risponde a necessità diverse ma convergenti. Prima di tutto il premier teme davvero che le resistenze sorde della politica diventino “non governo”, paralizzino le riforme necessarie oppure le rallentino sino a svalutare quella preziosa moneta nelle trattative con Bruxelles. Ma è probabile che sulla tabella di marcia incida anche l'appuntamento di gennaio con l'elezione del capo dello Stato.

Draghi ci tiene ad andare al Quirinale

Tutto lascia pensare che l'inquilino di palazzo Chigi a traslocare al Quirinale ci tenga davvero. Ieri, nel discorso rivolto ai sindaci, ha usato i toni propri di un capo dello Stato, non di un presidente del consiglio. La condizione ineludibile è però poter dire a ragion veduta di aver completato la doppia missione affidata da Mattarella al suo governo: portare a termine la campagna di vaccinazione e avviare il Pnrr realizzando le riforme necessarie per garantirne il successo, riforme che peraltro la Ue esige. Lasciare palazzo Chigi a metà strada, senza aver raggiunto entrambi gli obiettivi, sarebbe letteralmente impensabile. Dunque Draghi deve farcela con rapidità anche maggiore di quella che la Ue esige.

Camere sciolte?

Se potesse affermare di aver assolto in pieno al compito affidatogli Draghi sarebbe anche in grado di sferrare un colpo da Ko ai partiti che lavorano contro la sua presidenza dimettendosi prima che la corsa al Colle inizi davvero, il prossimo 18 gennaio. Che lo faccia davvero è improbabile, trattandosi di una forzatura davvero plateale. Ma la principale obiezione a una sua elezione, la necessità di portare a termine l'incardinamento del Pnrr, verrebbe comunque meno. E anche la seconda, la difesa del posto di lavoro dei parlamentari sino alla scadenza della legislatura, perderebbe buona parte della sua potenza. Si può star certi che un Draghi presidente farebbe di tutto per evitare lo scioglimento anticipato delle camere mentre sulla possibilità che questa maggioranza regga per un anno, in un clima da campagna elettorale permanente e senza più lo scudo delle riforme propedeutiche al Pnrr da fare, di certezze proprio non possono essercene.