«Né rinnegare né restaurare»: il celebre motto, come è noto, fu coniato da Giorgio Almirante per dare la linea sull'approccio del Movimento Sociale italiano all'ingombrante eredità fascista del partito. E potrebbe non essere un caso che l'allieva politica di maggior successo del patriarca della destra nazionale stia adottando lo stesso atteggiamento rispetto all'eredità berlusconiana della riforma della giustizia, proprio per evitare di riportare le lancette della storia repubblicana indietro di almeno 20 anni e di rendere la campagna referendaria una polveriera.

L’approvazione in seconda lettura al Senato del ddl Nordio sulla separazione delle carriere ha riacceso infatti una disputa politica che va ben oltre il testo della riforma. Se infatti il provvedimento segna un punto di svolta epocale per la giustizia italiana, la sua gestione politica rivela un’incertezza di fondo nella maggioranza, un delicato equilibrio tra rivendicazioni e cautela. Da più parti, con un gesto quasi simbolico, i parlamentari azzurri hanno evocato Silvio Berlusconi, compreso Antonio Tajani e addirittura Pierantonio Zanettin, che ha parlato dal seggio del fondatore di Forza Italia per sottolineare che si tratta della “loro riforma”.

Ma a un livello più alto, Meloni sembra preferire una linea diversa: non rinnegare il passato, ma camminare con piedi propri, allontanandosi dal nome divisivo di Berlusconi. Il motivo è semplice e ben noto: Silvio Berlusconi resta una figura ancora troppo polarizzante nel Paese. Lo si è visto anche nella reazione della forza politica che maggiormente si oppone alla riforma, il Movimento 5 Stelle, che in Aula ha scelto di utilizzare cartelloni con l’immagine di Berlusconi accostata a quella di Licio Gelli, il controverso “Maestro Venerabile” della P2, per contestare il ddl. Non contenti, i pentastellati hanno realizzato un flash mob che ha rilanciato questa polemica visiva, facendo della riforma un terreno di scontro che sa più di propaganda politica che di confronto sui contenuti.

Guardando avanti, è facile prevedere che anche il Partito Democratico, guidato da Elly Schlein, non sarà immune dal richiamo di questa narrativa anti-berlusconiana, soprattutto in vista della campagna referendaria che, molto probabilmente, si terrà nella primavera del 2026. Il Pd sarà tentato di allearsi sul fronte dell’opposizione con i grillini, cercando, come detto, di ricreare il clima di quella stagione caratterizzata dal bipolarismo aspro e da un’Italia divisa tra il Cavaliere e le sue critiche accese. È proprio questa prospettiva che Giorgia Meloni vorrebbe evitare. La premier insiste nel porre l’accento sul merito della riforma, sul suo impatto concreto nel migliorare il funzionamento della macchina giudiziaria e sul rispetto del giusto processo per ogni cittadino italiano. Una riforma che, nelle intenzioni meloniane, deve essere letta fuori dal contesto personale o storico di Berlusconi, per farsi patrimonio collettivo e strumento di modernizzazione dello Stato.

Del resto, il percorso di Meloni nel governo ha mostrato una forte volontà di affrancarsi da un’eventuale “omologazione” alla stagione berlusconiana, almeno quando si è trattato di scegliere figure chiave. Quando Berlusconi era ancora in vita, infatti, all’inizio di questa legislatura la premier si oppose con decisione al trasloco di una fedelissima del Cavaliere a via Arenula. La frattura con il fondatore di Forza Italia fu netta e segnalò una volontà di indipendenza politica e culturale che, nel tempo, si è rivelata strategica. Non è un caso che un magistrato, in una mail privata poi divenuta pubblica, abbia definito questa riforma «più difficile da contrastare» rispetto alla precedente versione targata Berlusconi.

La ragione è che in questa nuova versione non c’è più la leva del conflitto d’interessi su cui spingere, un argomento che negli anni ha rappresentato il cavallo di battaglia dell’opposizione per delegittimare le riforme berlusconiane. Questa nuova realtà costringe dunque il centrodestra a un gioco di equilibri delicati: da un lato, rivendicare una “patrimonializzazione” della riforma che dia merito a Forza Italia e alla sua storia; dall’altro, non trascinare il dibattito politico e pubblico nella trappola di vecchi rancori e divisioni. Per Meloni è una sfida cruciale, perché dalla capacità di tenere insieme questi due elementi dipenderà una parte della salute politica del governo e il successo o il fallimento di una riforma che potrebbe davvero cambiare la giustizia italiana. Il confronto è dunque aperto, e si preannuncia rovente, soprattutto in vista della campagna referendaria.

Ma la domanda rimane: il centrodestra saprà trasformare questa riforma in un progetto unitario, capace di mettere da parte le divisioni del passato, o rischierà di farsi risucchiare da vecchie nostalgie e nuove tensioni interne?