Nessun messaggio in codice, nessuna dietrologia politica: è stato solo puro e semplice protocollo quirinalizio a collocare il Movimento 5 Stelle come ultima forza politica a salire al Colle per il secondo giro di consultazioni. Un secondo giro che, da qualunque fronte lo si guardi, non sembra poter prospettare a Sergio Mattarella scenari inediti. «Sarò il premier del cambiamento, oppure non se ne farà nulla», sillaba Luigi Di Maio in trasferta per la campagna elettorale delle regionali in Molise, poi ragiona sul Fatto Quotidiano: «Berlusconi per noi è indigeribile e Salvini lo sa, se vuole discutere di questo un incontro è inutile», pur ribadendo di «essere fiducioso» sulla costituzione del governo anche se, se anche si tornasse a votare, «noi siamo quelli che abbiamo meno da temere, perchè cresceremmo sicuramente». Pur non sbilanciandosi sull’origine di questa fiducia, Di Maio ribadisce che «non vuole far saltare nessun tavolo, nè con la Lega nè col Pd» e, davanti alla domanda su che cosa dirà a Mattarella, si limita a una risposta sibillina: «Mancano ancora giorni, ere geologiche in una fase come questa. Bisogna aspettare gli eventi». Quali eventi è facile immaginarlo: o un addio di Salvini a Berlusconi oppure, forse preferibilmente ( «Capiamo che hanno i loro tempi, quindi aspettiamo», commenta Di Maio), una resa del Pd ( «tutto il Pd» ) alla linea del dialogo coi 5 Stelle.

In casa dem, se la linea ufficiale non vacilla, qualche prima falla inizia a vedersi: si è tenuta ieri la riunione dei gruppi parlamentari per decidere i passi futuri e, se dal fronte renziano la chiusura è totale, qualcosa nella minoranza si muove. Se sul dialogo preconsultazioni Martina blocca tutto con un: «Non possiamo immaginare la strada proposta da Di Maio, la sua è una logica irricevibile» e Rosato ribadisce che «Il Pd incontrerà soltanto chi riceverà l’incarico formale del Presidente della Repubblica», a scartare è Dario Franceschini.

«La prima fase, con la Direzione che ha dato la linea dell’opposizione, penso sia stata giusta. Ma io credo che non basti più soltanto assistere, oggi dobbiamo prepararci a una seconda fase in cui condizionare il quadro politico ed evitare il governo Lega- 5Stelle. Non sto proponendo un governo con M5s o di entrare in un governo Di Maio», ha dichiarato davanti ai parlamentari. Musica per le orecchie di Di Maio e tamburi di guerra per chi segue da vicino i subbugli interni. E a poco serve la nuova chiusura del renziano Rosato, che ha affermato come «è vero che le cose possono cambiare, ma al momento intorno a noi non sta succedendo nulla. Noi siamo alternativi a grillini e leghisti».

Eppure, il tenore dei rapporti tra Movimento 5 Stelle e Pd non si è affatto scaldato, come dimostrano i lavori parlamentari di elezione della Commissione speciale della Camera, che dovrà esaminare il Def e gli atti urgenti trasmessi dal governo. «Il Pd non candiderà nessuno alla presidenza, loro hanno già fatto un accordo e noi ne prendiamo atto», è la posizione dei deputati Pd, cui spettano 7 componenti su 40. «Noi lasciammo all’opposizione la presidenza, adesso questo criterio non viene rispettato. Siamo allo stesso metodo che ha contraddistinto l’elezione dell’Ufficio di presidenza», ha attaccato il capogruppo Graziano Delrio.

Intanto, impazza anche il dibattito interno al Pd, sempre più acceso in vista dell’Assemblea del 21 aprile: Maurizio Martina, che si è candidato ufficialmente alla segreteria e ha chiesto di «evitare la conta interna, ma di lavorare dandoci il tempo di ricostruire un progetto. Non penso a un leader ma a una squadra».

Insomma, una richiesta di tregua che viene accolta dal renziano Matteo Orfini, presidente del Partito: «Da presidente dell’assemblea auspico che ci sia una candidatura unitaria attorno a una personalità che possa gestire il partito nei prossimi mesi. Se non ci saranno le condizioni per questo, allora faremo il congresso. Se deve esserci una conta ha senso che si faccia in un congresso, non all’assemblea». Il Pd ha diverse strade davanti: confermare Martina segretario con incarico pieno fino al 2021 ( che ad oggi sembra la strada meno plausibile); affidargli un incarico a tempo per la convocazione di un congresso in autunno ( linea gradita alle minoranze, meno ai renziani, che dubitano Martina abbia il carisma necessario per andare avanti e temono un lento rosolamento) oppure andare alla conta in assemblea, con la candidatura di Matteo Richetti e l’ipotesi della “carta- Rosato” per i renziani. Un bivio a tre davanti al quale il Pd è ancora fermo in pensosa e calcolata attesa ( la stessa evocata da Di Maio), forte dell’ultimo lascito dell’ex segretario Renzi: la parola d’ordine è «opposizione», anche se ora un “ma” in più è d’obbligo.