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Craxi
È “la Costituzione più bella del mondo”. Ne consegue che ogni tentativo di modificarla equivale a uno sfregio. Qualcosa si può aggiungere, qualche particolare si può ritoccare ma mettere mano all'impianto di fondo significherebbe aggiungere i baffoni a Monna Lisa. Non solo un errore ma una bestemmia: delitto politico sufficiente a stroncare carriere e circondare i proponenti di un'aura losca o peggio. In parte almeno, ma in parte rilevante, l'eterna anomalia italiana, il guado a metà del quale la Repubblica stagna da decenni, senza annegare ma in compenso marcendo progressivamente, è qui. Questa sacralità era solo in parte voluta e prevista dai famosi "padri costituenti". Scelsero una Costituzione rigida e difficilmente riformabile, anche perché bruciava ancora come fiamma non del tutto spenta il ricordo del fascismo. Però indicarono anche la strada, stretta ma tutt'altro che impraticabile, per rimettere mano a una Carta la cui "bellezza" non andava scambiata, come è poi invece di fatto avvenuto, per eterna perfezione. Il primo a bestemmiare, ad affermare cioè che la seconda parte della Costituzione, quella sul funzionamento dello Stato, necessitava di una revisione fu Bettino Craxi, in un editoriale uscito sul quotidiano del Psi Avanti! il 25 settembre 1979. S'intitolava "Ottava legislatura", denunciava il "logorio del tempo" subìto dalla Carta, proponeva una "Grande Riforma" che avrebbe dovuto toccare "l'ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale" e garantire così "l'efficacia dell'esecutivo". Tra le battaglie ingaggiate da Bettino Craxi nel decennio del suo fulgore fu una delle più perdenti. Si risolse in un inutile "abbaiare alla luna", come sentenziò alla fine lo stesso Craxi. La commissione bicamerale per la riforma fu effettivamente istituita nel 1983, guidata dal liberale Bozzi, ma non concluse niente. Craxi, nel frattempo, era diventato agli occhi di una parte vasta della pubblica opinione, in particolare a sinistra, una specie di aspirante dittatore, figura pericolosa, sospetta, in odor di stretta autoritaria. All’inizio del decennio successivo della necessità di svecchiare il capolavoro del dopoguerra parlò però il guardiano della Costituzione in persona, l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in un lungo e dettagliato messaggio alle Camere del 1991. Era una bomba a potenziale esplosivo talmente alto che il premier Andreotti rifiutò di controfirmarlo e passò la palla avvelenata al Guardasigilli Martelli. Il capo dello Stato aveva in mente una legge elettorale maggioritaria, il potenziamento dell'esecutivo, la fine del bicameralismo perfetto, un intervento drastico sulla magistratura. Nessuno accusò Cossiga di tentazioni golpiste. In compenso lo fecero passare per matto. Nel 1992, in piena tempesta tangentopoli, il Parlamento ci riprovò, con una commissione bicamerale presieduta prima da De Mita e poi, dopo le sue dimissioni, da Nilde Iotti. Stavolta una proposta arrivò, modellata di fatto sul sistema tedesco. Ma quando fu presentata, l'11 gennaio 1994, il referendum del 1993 aveva già abbattuto la legge elettorale proporzionalista che aveva sino a quel momento retto la Repubblica e tangentopoli aveva falcidiato un'intera classe politica seppellendo la prima Repubblica. La proposta rimase lettera morta. Il tentativo più serio di riformare la Costituzione è stata la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, istituita nel gennaio 1997 pochi mesi dopo la vittoria elettorale dell'Ulivo di Romano Prodi: la grande occasione perduta dalla politica italiana è stata quella. Nella situazione di terremoto permanente di quella fase una riforma profonda della Carta sarebbe stata accettabile, anche se su D'Alema si abbatterono gli strali delle tante vestali dell'intoccabilità della Carta. Non furono quelle proteste però ad affossare la riforma ma la richiesta di Berlusconi di modificare anche i capitoli sulla magistratura. Richiesta non solo lecita ma doverosa: il PdS però non se la sentì. Si potevano mettere le mani nella forma di governo, nella struttura del Parlamento ma non toccare le toghe. Il peso di quel fallimento ha pesato su tutta la politica italiana determinando quella condizione di stagnazione in mezzo al guado dalla quale la politica e le istituzioni non sono più riuscite a trarsi fuori. La maledizione non risparmiò D'Alema: diventò seduta stante l'emblema della "intelligenza col nemico", delle trame segrete, dei "patti della crostata" stretti in segreto a casa Letta. I panni di 'uomo dell'inciucio' non è più riuscito davvero a strapparseli di dosso. Una riforma costituzionale però fu varata davvero nel corso di quella legislatura: l'ultimo giorno prima dello scioglimento con una strettissima maggioranza. Era la riforma "federalista" decisa dal centrosinistra per rispondere alla spinta federalista della Lega e da allora ha fatto solo danni, al punto che a tutt'oggi non si trova un leader disposto ad assumersi la responsabilità della sua approvazione. Berlusconi ci provò di nuovo con una revisione totale della seconda parte della Costituzione, stilata da tre "saggi" riuniti in conclave a Lorenzago. Approvata a maggioranza dagli elettori e poi bocciata dagli elettori nel referendum confermativo del 2006. E' significativo che, all'opposto di 10 anni, del testo e del suo merito quasi non si discusse affatto. Il Paese era ormai diviso in berlusconiani e antiberlusconiani, e il voto si orientò solo su quella scelta. La riforma di Matteo Renzi, approvata nell'aprile 2016 e poi bocciata nel dicembre dello stesso anno dal referendum popolare, aveva obiettivi meno ambiziosi della bicamerale di vent'anni prima o della riforma di Lorenzago del decennio precedente. Mirava soprattutto a eliminare il bicameralismo perfetto, trasformando la camera alta in Senato delle Regioni e degli enti locali. Non andava dunque in direzione diversa da quella indicata nel 1994 dalla commissione De Mita-Iotti. Tuttavia anche in quel caso Renzi finì nel mirino perché accusato di tentazioni autoritarie e sostanzialmente antidemocratiche. L'aspetto per molti versi più inquietante di questa visione, per cui solo un rispetto integrale e spesso integralista della seconda parte della Carta è garanzia di rispetto della democrazia, e del conseguente tiro al bersaglio che falcidia chiunque osi proporne una revisione, è il puntuale conseguimento di risultati opposti a quelli sbandierati. Il rifiuto di affrontare, normandolo, il problema di un esecutivo troppo debole ha portato a una brutale "riforma di fatto" che ha finito per consegnare all'esecutivo quasi tutte le prerogative che i costituenti avevano affidato al Parlamento. Al punto che oggi il problema delle istituzioni si presenta rovesciato rispetto a quando Craxi lanciò la sua ipotesi di "Grande Riforma". E' infatti il potere legislativo quello che è stato via via svuotato di significato, in un processo coronato dalla demagogica riforma costituzionale voluta dal M5S e approvata in via definitiva dal referendum popolare del 2020. Oggi una revisione della Costituzione imporrebbe di ridisegnare i confini delle competenze tra i poteri dello Stato restituendo al Parlamento un ruolo che oggi sfiora l'inesistenza, come si verificherebbe persino con una oculata riforma in senso presidenzialista. Certo, per farlo bisognerebbe smettere di considerare una bestemmia qualsiasi ipotesi di profonda riforma costituzionale per lasciare invece campo libero alle torsioni istituzionali realizzate praticando l'obiettivo, senza norma né regola né soprattutto razionalità.