Nel day after della tempesta istituzionale che ha contrapposto lo stato maggiore di FdI al Quirinale, e che ha visto il chiarimento vis-à-vis tra Giorgia Meloni e Sergio Mattarella, nei capannelli di Palazzo circolano le voci più disparate sul “Garofani gate”: dalla imprudenza del Consigliere del Capo dello Stato a sospetti espressi a mezza bocca su una regia occulta e ben architettata, capace di intercettare e mettere su nastro le parole pronunciate giorni addietro dal Consigliere, rese note proprio all'indomani di un Consiglio Superiore di Difesa che ha visto un esito irremovibile sul sostegno a Kiev contro l'invasore russo.

Sospetti che, ad esempio, il leader di Azione Carlo Calenda ha espresso in chiaro, scrivendo che «Mosca ha tra i suoi primi obiettivi il presidente Mattarella». Anche la dem Pina Picierno adombra sospetti su questa vicenda, parlando di una «tempistica quantomeno curiosa dopo la convocazione del Consiglio supremo di difesa dove peraltro è stato posto per la prima volta all'ordine del giorno il tema delle minacce ibride che la Federazione Russa muove all'Europa e all'Italia».

Tornando però ai fatti acclarati, l’incontro tra Giorgia Meloni e Sergio Mattarella, fissato dopo una telefonata della premier nella mattinata, è arrivato a valle del caso Bignami e del terremoto provocato dal retroscena de La Verità sulle parole pronunciate in un locale pubblico dal consigliere del Colle Francesco Saverio Garofani. Uno sfogo, quello attribuito al collaboratore del Capo dello Stato, che ha fatto deflagrare una tensione latente da settimane.

La nota di Palazzo Chigi diffusa dopo il colloquio ha provato a mettere ordine e a smorzare l’eco dello scontro: Meloni ha ribadito la «sintonia istituzionale mai venuta meno» con Mattarella, esprime «rammarico per le parole istituzionalmente e politicamente inopportune» pronunciate da Garofani e chiarisce che la richiesta di smentita avanzata dal capogruppo di FdI Galeazzo Bignami «non fosse un attacco al Quirinale», bensì un modo per “tutelare” il Colle circoscrivendo la vicenda al suo autore. Un tentativo di ricucire, insomma, che però non cancella il punto politico emerso con prepotenza nel retroscena pubblicato dal quotidiano diretto da Maurizio Belpietro.

Perché se è vero che a indignare FdI è stata soprattutto la parola “scossone”, usata da Garofani in riferimento alla necessità di una svolta contro il governo, è l’altra frase a colpire al cuore il cerchio magico della premier: l’ipotesi di promuovere una “lista civica nazionale” guidata da una figura moderata, capace di contendere al centrodestra la vittoria alle prossime politiche. Un’idea che, pronunciata per sbaglio o meno, accende la spia rossa proprio dove la presidente del Consiglio guarda da tempo con maggiore apprensione: la legge elettorale.

Fonti della maggioranza lo ripetono sottovoce da mesi: Meloni pensa a una riforma che superi gli attuali collegi uninominali, ritenuti troppo esposti al fattore territoriale, soprattutto nel Centro-S ud dove il centrodestra soffre. Il modello che circola nelle riunioni riservate è quello di un proporzionale corretto da un premio di maggioranza alla coalizione che superi il 40%. Una soluzione che renderebbe quasi impossibile, anche per un campo larghissimo da Avs a Renzi, ribaltare il risultato nei territori chiave. Una riforma, però, che potrebbe non passerebbe indenne né nel Parlamento né, soprattutto, al Colle.

È qui che il caso Garofani diventa politico: perché negli ambienti di governo serpeggia la convinzione che Mattarella non gradirebbe un nuovo cambio di sistema a ridosso del voto. E che potrebbe usare la moral suasion per frenare un’operazione giudicata troppo vantaggiosa per la maggioranza. In questo schema, una lista civica nazionale centrista diventa il vero incubo di FdI: non tanto perché reale oggi, quanto perché potenziale domani. Perché con l’attuale legge elettorale garantirebbe al centrosinistra almeno un pareggio strategico, cioè quei numeri sufficienti a pesare sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

Non è un caso che Meloni insista da tempo nel legittimare Elly Schlein come sua principale antagonista. Per la premier, la polarizzazione destra-sinistra è l’unico terreno sicuro: meglio una sfida netta, identitaria, che un rassemblement centrista capace di togliere ossigeno al centrodestra e sparigliare i collegi. Da qui anche l’irritazione mai sopita per l’uscita di Garofani: non tanto per il giudizio politico, quanto per l’immagine di un Quirinale che, almeno nelle chiacchiere da bar, ragiona su scenari elettorali. Una linea rossa che Palazzo Chigi non può permettere rimanga visibile.

L’incontro, nelle intenzioni della premier, serve a chiudere la vicenda. «Nessuno scontro istituzionale», assicurava la nota, mentre Meloni rientrava a Palazzo Chigi per il bilaterale con il premier croato Andrej Plenkovic, quasi a rivendicare che l’agenda internazionale non può essere piegata a un caso domestico. Ma il clima resta quello delle grandi manovre: da un lato il Colle che difende la propria neutralità, dall’altro un governo che si avvicina alla fine della legislatura con un pensiero fisso — blindarsi prima che qualcuno provi davvero a smontarlo.