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GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
La premier arriva al Quirinale in mattinata, decisa a chiudere lo scontro più duro con il Quirinale da quando è presidente del Consiglio. Assicura a Mattarella che da parte di FdI non c’è mai stata alcuna intenzione di prenderlo di mira. Dice che anzi la richiesta di «chiarimenti» rivolta al consigliere Garofani per le sue parole serviva proprio a circoscrivere l'incidente e tutelare lo stesso Colle. In ogni caso, sottolinea la nota informale diramata da palazzo Chigi al termine del colloquio, si conferma «la sintonia istituzionale mai venuta meno dall’insediamento del governo e mai messa in dubbio».
Meloni insomma gioca su un doppio registro. Abbonda in riconoscimenti e assicurazioni nei confronti del presidente ma tiene duro sulle critiche al consigliere che, sia pure in una «chiacchierata con gli amici» aveva illustrato la necessità di battere la premier prima che possa vincere le prossime elezioni e ambire poi alla presidenza della Repubblica. Se la posizione di FdI fosse stata questa sin dall'inizio sarebbe risultata inappuntabile. Ma così non è stato e bisogna chiedersi come politici di lungo corso come quelli di stanza a palazzo Chigi e in via della Scrofa si siano potuti muover tanto disastrosamente da trasformare un gol a porta vuota in un autogol. Perché proprio questo è successo.
Dopo che la pubblicazione delle parole in libertà di Garofani erano state rese note dal quotidiano La Verità, FdI avrebbe avuto gioco facilissimo nel denunciare il ciarliero consigliere, chiarendo però subito che le sue fantasie non coinvolgevano di certo il capo dello Stato e anzi rappresentavano prima di tutto un’offesa proprio per il Quirinale. Calibrare le parole sarebbe stato tanto più opportuno e anzi doveroso in quanto Belpietro, la cui campagna contro Mattarella è a tempo pieno, aveva scelto uno stile volutamente ambiguo, prendendo di mira sin dai titoli non uno specifico e indifendibile consigliere ma «il Quirinale».
Nei cui uffici molti sono convinti che l’obiettivo del quotidiano fosse solo ed esclusivamente il presidente e che la pubblicazione delle chiacchiere in troppa libertà, solo alcuni giorni dopo esser state pronunciate, dipendesse dall’esito positivo del Consiglio supremo di difesa del giorno prima. Insomma, uno sgambetto “putiniano”. Ma giusta o complottista che sia questa lettura, resta il fatto che il governo e Giorgia Meloni in particolare avevano invece interesse opposto, quello di non coinvolgere Mattarella nelle trame, solo auspicate e non agite, del suo consigliere.
La decisione di passare all’attacco non è stata certamente solo del capogruppo alla Camera Bignami ed è anche molto improbabile che una mossa potenzialmente così esplosiva sia stata decisa solo da un pur potente sottosegretario come Giovanbattista Fazzolari. La premier era quasi certamente al corrente dell'affondo che si stava preparando e che non sarebbe stato possibile senza il suo semaforo verde. Altrettanto probabilmente, però, non conosceva la formula che sarebbe stata poi scelta, quella che ha trasformato un facile successo d'immagine in un mezzo disastro.
Il comunicato diramato da Bignami, infatti, si muoveva sulla stessa linea ambigua adottata da Belpietro, evitava di segnalare chiaramente la distinzione tra il consigliere di Mattarella e Mattarella stesso, invocava una smentita in termini volutamente vaghi, senza specificare a chi la richiesta fosse rivolta. In questo modo quello di FdI è sembrato, ed è di fatto stato, un attacco diretto contro il capo dello Stato. Le parole molto inopportune di Garofani sono state eclissate dalla linea ancora più inaccettabile del principale partito italiano e dunque, a torto o a ragione, attribuite direttamente alla sua leader.
L’opposizione ha trovato una plateale conferma all'accusa che rivolge quotidianamente alla premier di non sopportare contrappesi istituzionali, tanto più contundente con il referendum che si approssima. Il capo dello Stato, con il quale la premier ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti è furibondo. Politicamente la mossa si è rivelata disastrosa. Una imperizia come quella dimostrata dal gruppo di testa di FdI non si spiega solo con i conclamati limiti di quei dirigenti. Rinvia direttamente in una sindrome dell'assedio che sconfina nella paranoia. Ma neppure la sindrome dell'assedio vale da sola a spiegare il nervosismo estremo che si è palesato in questa occasione.
C’è qualcosa in più e quel qualcosa è probabilmente la consapevolezza della premier di avere di fronte un quadro economico disastroso, dopo anni spesi a decantare successi e proprio quando le prossime elezioni politiche si stanno avvicinando.


