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MATTEO RENZI, POLITICO
La riforma costituzionale della separazione delle carriere potrebbe essere l’unica vera riforma che questo governo riuscirà a varare. Alla premier Giorgia Meloni non resta che puntare su quella della giustizia o meglio dell’ordinamento giudiziario, avendo accantonate al momento quelle del premierato ( troppo divisiva e complessa) e quella dell’autonomia differenziata ( ridimensionata dalla Corte costituzionale), benché il ministro Roberto Calderoli sia tornato a farsi sentire e a fare pressioni agli alleati con cui avrà un incontro in settimana sul tema. In più occasioni, da ultima il palco di Comunione e liberazione di Rimini, la presidente del Consiglio ha assicurato che la modifica costituzionale si farà e non si lascerà frenare da «giudici politicizzati». A vedere i sondaggi, sembra che la maggioranza sia destinata a vincere il referendum confermativo, benché la magistratura, almeno apparentemente, nelle dichiarazioni pubbliche dell’Anm, è convinta di rimontare. E i partiti di opposizione non sono ancora veramente scesi in campo.
La stagione calda degli scontri e della resa dei conti finale deve ancora cominciare. Eppure c’è già una incognita che secondo gli attori in gioco – politica, magistratura, avvocatura, accademia – potrebbe avere un peso sul risultato finale. In realtà si tratta di una circostanza che viene ricordata spesso nei discorsi dietro le quinte, ma mai pronunciata esplicitamente. Viene quasi sussurrata perché la scaramanzia, da qualsiasi punto di vista la si voglia invocare, ha ancora i suoi effetti e i suoi seguaci in ogni dove. Stiamo parlando di quello che accadde il 4 dicembre 2016 con la riforma costituzionale targata Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, volta a superare il bicameralismo, a ridurre il numero dei parlamentari, a sopprimere il Cnel e a modificare il titolo V della Parte II della Costituzione. L’allora inquilino di Palazzo Chigi venne sconfitto 40 a 60 e si dimise immediatamente.
La ragione della disfatta è stata da sempre rintracciata nel fatto che Renzi volle trasformare quel referendum in un voto plebiscitario su se stesso. La campagna elettorale dell’attuale leader di Italia Viva era iniziata in primavera, e nelle rilevazioni demoscopiche, come ricordava una analisi di Youtrend, il vantaggio del Sì era apparso subito netto: «Il 50% degli intervistati si dichiarava intenzionato a votare a favore della riforma, contro un 24% che si dichiarava contrario e un 26% di indecisi. Per molti, un dato scontato: è una riforma fatta per essere comunicata, come si fa a votare contro i tagli ai costi della politica, contro una maggiore efficienza delle istituzioni?», si disse allora. Poi, qualche mese dopo, Renzi dichiarò per la prima volta che il destino del proprio governo sarebbe coinciso con quello della riforma: fu l’inizio di un crollo verticale nei sondaggi. L’ex premier non se ne curò e continuò con quel messaggio, senza preoccuparsi del fatto che il suo indice di fiducia nei sondaggi si attestava tra il 30 e il 40 per cento. Potrebbe accadere la stessa cosa a Giorgia Meloni? Difficile fare pronostici in questo momento. I numeri dicono che se è vero che la magistratura registra un calo di consensi, resta comunque l’istituzione più apprezzata dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma prima ancora del Parlamento e del governo. E proprio quest’ultimo sta registrando un calo dell’indice di gradimento negli ultimi mesi, come rilevato da diversi sondaggi, a partire da quello di Nando Pagnoncelli. In questa scia è finita anche Giorgia Meloni segnata da un meno 3 per cento.
Inoltre sappiamo che più si avvicina il rinnovo di Camera e Senato, che avverrà nel 2027, e più il consenso dei cittadini verso maggioranza ed Esecutivo cala fisiologicamente. E questo potrebbe riverberarsi anche sul referendum costituzionale che dovrebbe tenersi dalla primavera del 2026.
Ma a parte le statistiche, che al momento sono lo specchio di una condizione politica volubile, conterà molto anche quello che deciderà di fare, appunto, la premier. Vorrà personalizzare la riforma costituzionale della separazione delle carriere che porta la sua firma e quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio? In più occasioni Meloni l’ha rivendicata; tuttavia non ha scelto ancora di personalizzarla. Ciononostante, date le tempistiche su citate e il contesto descritto, sarà difficile che la presidente del Consiglio possa evitare che l’appuntamento alle urne sulla giustizia non si trasformi anche in un referendum su di lei, decisivo per le politiche 2027.
Così come sarà complicato che quello stesso voto non si trasformi in un indice di gradimento sulla magistratura. Una eventualità che tutti vorrebbero scongiurare, su tutti i fronti di battaglia perché per tutti sarebbe auspicabile discutere degli aspetti tecnici della riforma – giusto processo, anticorrentismo, giustizia disciplinare – ma molto probabilmente non sarà affatto così.