L’ elefantino rosso col quale Giuliano Ferrara firma sul Foglio gli articoli in cui riesce a combinare meglio i suoi umori, o la passione e la razionalità che s’intrecciano producendo bollicine, ha allungato questa volta la sua proboscide sui radicali. Ai quali Giuliano contesta di poter guidare il fronte del no alla presunta - secondo lui - antipolitica del taglio dei seggi parlamentari, preteso dai grillini prima e persino a prescindere da altre modifiche alla Costituzione che in qualche modo li compensino o, secondo i casi, li completino sulla strada dell’efficienza.

Non è per antipatia personale - credo verso la senatrice Emma Bonino, troppo abortista per i suoi gusti e sentimenti antiabortisti, che Giuliano l’ha proboscitata insieme col compianto Marco Pannella ed altri esponenti della galassia radicale. È altro che stavolta il fondatore e tuttora ispiratore del Foglio mostra di non perdonare ai radicali: la loro antipolitica, precedente a quella che ha portato i grillini dove i radicali non hanno neppure sognato mai di arrivare. Penso naturalmente ai risultati elettorali del 2018 e al ruolo centrale che i grillini si sono assegnati come i democristiani di una volta, facendo ruotare attorno a loro, ma soprattutto ai loro problemi, governi, alleanze, equilibri, si fa per dire, in uno spettacolo che giustifica quel volto terreo di Emma Bonino nella foto che l’ha ritratta domenica scorsa nella manifestazione di piazza romana dei Santi Apostoli per il no referendario del 20 settembre.

C’è del vero, per carità, nella rappresentazione dei radicali da parte di Giuliano. Pannella non fu tenero con i politici del suo tempo ma paragonarlo a Beppe Grillo mi sembra francamente troppo. Sarò ingenuo, peccherò di indulgenza e di un conformismo a questo punto funebre, ma nell’antipolitica di Pannella io ho spesso avvertito, al netto delle sue esagerazioni e dei suoi errori, l’aspirazione ad una politica diversa e migliore. Lo ha appena testimoniato Gianfranco Spadaccia difendendo Pannella dalla sostanziale caricatura di Ferrara.

L’antipolitica di Grillo, per non parlare di quella meno gridata ma forse ancora più profonda di Davide Casaleggio, mi sembrano fine a sé stessa, diretta non a migliorare la politica ma semplicemente ad abolirla. È questo ciò che inquieta di più e che fa addirittura dire a Francesco Alberoni di temere più Grillo che il “truce”, come Ferrara chiama Matteo Salvini, mai scosso dai dubbi, neppure da quelli suggeritigli nel Foglio ogni tanto da Annalisa Chirico. Che lui di rimando chiama Cirichessa.

Neppure l’antipolitica, quindi, è unica nel suo genere. Ce ne sono di diversi tipi e finalità, che non sono certamente io a poter e dovere ricordare a Ferrara, con tutti gli uomini e le stagioni più o meno “trasversali”, come lui stesso ha ammesso, in cui gli è capitato di scrivere di politica e di farne. Nello stesso giorno del processo di Giuliano ai radicali mi è capitato di leggere un’intervista a Libero dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. In cui si racconta, fra l’altro, della sua esperienza di funzionario del Pci “quarant’anni fa” in un ufficio dove era appeso questo cartello: «Qui si lavora, non si fa politica», cioè - ha spiegato Minniti - «inutile chiacchiera politicista».

Sì, è facile dirlo o spiegarlo così quarant’anni dopo gli Ottanta del secolo scorso. Allora si era consumata un’altra tappa del politicismo di Enrico Berlinguer, maturata nella famosa teorizzazione del “compromesso storico”. Che si era realizzato solo nella forma minimale della maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”, appoggiando il Pci dall’esterno, fra il 1976 e le prime settimane del 1979, due governi monocolori democristiani presieduti da Giulio Andreotti.

Il 23 luglio del 1981, quando la Dc, pur rimasta acefala col sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, si era affrancata da quel passaggio obbligato, imposto nel 1976 dalla indisponibilità del Psi ancora guidato da Francesco De Martino a partecipare a governi o maggioranze senza il Pci, ripose nei cassetti saggi, ricordi e altro ancora del “compromesso storico” e sventolò la famosa “questione morale” contro la Dc e i suoi ritrovati, o ritrovandi alleati di un tempo, dai liberali ai socialisti.

Ne parlò ad Eugenio Scalfari in una intervista storica quanto il suo compromesso. Mi chiedo, anche a tanti anni di distanza da allora, e alla luce degli effetti prodotti da quella che fu definita la nuova, ennesima svolta berlingueriana, se non fu un’esplosione di antipolitica. Che, fra l’altro, per onesta ammissione di post- comunisti come Piero Fassino, offuscò a tal punto Berlinguer da farsi superare da Craxi nella ricerca della modernizzazione della sinistra e dello stesso sistema istituzionale.

Poi, certo, gli eredi di Berlinguer si tolsero la soddisfazione, diciamo così, di vedere Craxi nella polvere. Ma fu anche polvere della sinistra, non a caso oggi costretta a convivere con l’antipolitica dei grillini e a scambiare Giuseppe Conte per il leader del campo “progressista”, come dice Nicola Zingaretti assolvendolo dalla precedente alleanza con Salvini, o per «l’ultimo ancoraggio della politica antipopulista che abbia una sua tenuta e una sua prospettiva di legislatura».

Così ha scritto forse troppo ottimisticamente Ferrara del presidente del Consiglio a conclusione del processo ai radicali, e annunciando il suo rumoroso sì referendario di domenica prossima: un barrito, più che un annuncio.