Nel nuovo corso del Pd, il neosegretario Nicola Zingaretti insiste spesso sul fatto che bisogna riconquistare i voti persi a favore del Movimento Cinque stelle, in generale che bisogna riconquistare l’elettorato che ha lasciato la sinistra per andare a destra.

Questo discorso ha due pecche. La prima è quella di mettere davanti il voto in sé, rispetto al lavoro, molto più oneroso, che bisogna fare per conquistare l’egemonia nella società. E per riconquistare l’egemonia nella società bisogna rimboccarsi le maniche e mettersi a lavorare a testa bassa per far sì che i propri valori non solo vivano davvero ma siano condivisi. È uno sforzo enorme, perché si deve partire da una analisi della società, di ciò che è diventata, della classi che la compongono, di quale è il loro sistema valoriale di riferimento. A quel punto, ma solo a quel punto, si può iniziare a diffondere le proprie idee, a farle diventare “senso comune”, a pensare che il nazionalpopolare, nell’accezione gramsciana, non siano le trasmissioni trash ma la capacità di rendere popolare ciò che apparentemente non lo è. L’esatto opposto del populismo.

L’altro errore che si rischia di commettere è quello di cadere nella dicotomia che vede contrapposti diritti civili e diritti sociali. È una vecchia diatriba che sembra non trovare soluzione. A sinistra sono decenni che se ne discute. E anche quando sembra di aver raggiunto un compromesso tra le due istanze e che non ci sia contrapposizione si riparte da capo. In questo caso il ragionamento è che, avendo Matteo Renzi pensato alle Unioni civili, va da sé che non si sia occupato della questione sociale. Questa idea è diventata una verità incontestabile: se un partito pensa ai diritti civili - questa è l’accusa tutta da dimostrare - non penserebbe al lavoro, ai più deboli, ai più bisognosi. Zingaretti non nega il valore di certe conquiste. Ma per riavvicinare l’elettorato e per segnare la svolta del suo partito si sente in dovere di nominare principalmente la questione sociale. L’equità, l’uguaglianza, l’ascensore sociale sono tutti valori fondamentali, ma lo sono anche le unioni civili, la lotta al razzismo, il contrasto delle discriminazioni nei confronti delle donne.

I nuovi dem, se davvero vogliono essere nuovi, devono unire queste due anime, capire che non c’è un prima e un dopo, ma solo dal mix di queste due componenti si definisce un partito moderno, aperto, che non rinuncia ai suoi ideali. Se invece si tende a dar visibilità solo alla questione della giustizia sociale è perché si ha paura che questo possa creare scontento, che le persone non capiscano, che quel discorso non porti molti voti. E allora torniamo al punto di partenza. A quello sforzo, inizialmente forse poco “remunerativo” dal punto di vista elettorale, che però permetterebbe di guardare lontano, oltre l’immediato. In quell’orizzonte si potrà finalmente vedere la connessione sentimentale con il proprio elettorato.

È un’inversione totale. Non si attende che l’elettorato venga a sé compiacendolo o dicendo quello che si vuol sentire dire. Si va invece verso i cittadini facendo lo sforzo di far loro cambiare idea, di portarli sul proprio terreno ideale, in cui i principi dell’uguaglianza e delle libertà stanno sullo stesso piano. È una strada difficile, lunga, ma non impossibile. Ma ogni volta si tende a evitarla, a preferire le scorciatoie. La vittoria deve essere un obiettivo, ma quando il Pci era all’opposizione riuscì a far cambiare, radicalmente, il Paese e riuscì a farlo perché era egemone nella società. Negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito a un mutamento antropologico.

Non sono sparite le lucciole pasoliniane. È ormai saltato il modo di stare insieme, sono cambiati i meccanismi, anche umani, che regolano il vivere civile. Vanno ricostruiti, ricreati alla radice.