«In questo congresso si è definitivamente attestata l’egemonia culturale riformista». Andrea Romano, deputato dem vicino al neosegretario Matteo Renzi, descrive un partito pronto ad essere rilanciato nella sua vocazione maggioritaria e una minoranza «che non se ne andrà via con il pallone perché ha perso, come hanno fatto Bersani e Civati».

Dica la verità: il risultato di Renzi è andato oltre le vostre previsioni?

È stato un risultato inatteso e non solo per la percentuale del 70%. Sono rilevanti soprattutto la rielezione di un segretario e la fiducia in una linea politica che hanno vissuto vicende complicate negli ultimi mesi. La vera novità è il fatto che il Pd, per la prima volta nella sua storia, rielegge il segretario uscente con numeri così ampi e con una larga partecipazione democratica. In questo modo, si è definitivamente affermata l’egemonia culturale riformista e si è messo fine all’oscillazione un po’ nevrotica di un partito che fagocitava segretari uno dopo l’altro.

Quella di Renzi è stata una vittoria culturale, quindi?

La linea politica che da sempre contraddistingue Renzi è fondata sul riformismo: ovvero la prospettiva di una sinistra che non può stare ferma o tornare alle certezze del passato, ma deve avere il coraggio delle riforme. Sostanzio con qualche esempio: riduzione della pressione fiscale, riforma del mercato del lavoro, diritti civili. Ecco, fino a qualche anno fa questa era una linea politica minoritaria nella sinistra italiana, che si è affermata solo nel 2013 e ora si è consolidata.

Per un vincitore ci sono anche dei vinti. Dopo il trauma della scissione, Renzi cambierà approccio nella gestione della minoranza?

Io credo, soprattutto, che sarà diverso l’atteggiamento della minoranza nei confronti di Renzi. Facciamo un passo indietro: nelle precedenti primarie, sia Bersani che Civati e l’area culturale a loro riferita hanno sempre avuto nei confronti di Renzi un atteggiamento di delegittimazione, fondata sul fatto che lo percepivano come un invasore.

A rigor di cronaca, però, va detto che nemmeno Renzi è stato morbido nei loro confronti...

Io ammetto di essere di parte, ma credo che Renzi abbia sempre avuto un atteggiamento inclusivo, che però non si è tradotto in un riconoscimento da parte della minoranza.

E cosa le fa pensare che oggi le cose andranno diversamente?

Tanto per cominciare, il fatto che durante queste primarie non ci sia stata alcuna delegittimazione personale: Orlando e Emiliano non sono stati trattati come nemici e nessuno ha trattato Renzi come un impostore. Questa è la premessa migliore per una normalizzazione positiva della vita interna del Pd e sono sicuro che né Orlando né Emiliano faranno il verso a Civati e Bersani, andandosene via con il pallone perché hanno perso. Entrambi credono nella pluralità del Pd e condividono la necessità di consolidare il partito anche da posizioni di minoranza.

Renzi rimarrà Renzi, quindi? Nessun tentativo di smussare qualche angolo?

Guardi, io non credo all’importanza dei cambiamenti caratteriali, perché la politica deve prescindere da questo. Se mi chiede che cosa cambierà rispetto al 2013, però, le rispondo che ora Renzi avrà l’attenzione di dedicarsi al partito. Il precedente mandato è stato una stagione di grande urgenza e non c’è stato il tempo di costruire quel Pd pensato dai fondatori. Quelle furono primarie vinte da Renzi nel fuoco di una guerra, oggi invece le condizioni permettono a Renzi e alla sua dirigenza di dedicarsi di più al partito. E questo farà bene a Renzi, al partito stesso, alla sinistra e anche al Paese.

Parliamo di partito, allora. Ha ancora senso parlare di vocazione maggioritaria?

La vocazione maggioritaria del Pd immaginata dai fondatori è ancora fondamentale. E lo è soprattutto in uno scenario temporale in cui sembrano prevalere scenari proporzionali. Il Pd perseguirà una strategia maggioritaria, perché la nostra forza politica ha nel Dna l’obiettivo di uscire dal pantano proporzionalistico.

E dunque la domanda sorge automatica: niente coalizione?

Basta avere un po’ di memoria storica per ricordare che le coalizioni, per tutta la Seconda Repubblica, sono state lo scoglio contro il quale si sono infrante le intenzioni programmatiche, sia della destra che della sinistra una volta arrivate al governo. Davvero non si capisce perché la coalizione dovrebbe essere un’entità miracolosa che risolve ogni problema.

Porte chiuse a Mdp, quindi?

Mdp è un movimento curioso: da un lato accusano il Pd di essere un partito stalinista, dall’altro vogliono allearsi. Ma di cosa parliamo? Mi pare vivano su un pianeta molto distante dal nostro.

Ma se l’obiettivo non è la coalizione, come spiega l’avvicinamento al progetto di Giuliano Pisapia?

Un conto è Pisapia, un altro è Mdp e io sono favorevole al dialogo con lui e con tutte le aree civiche che a lui si ispirano. Il nostro non è mai stato un partito monolitico dal punto di vista culturale e ha da sempre una pluralità di posizioni interne. Aggiungo anche che già oggi il Pd può rappresentare quelle aree civiche che guardano a Pisapia: basta guardare ai risultati di Milano, dove Renzi ha avuto uno straordinario successo.

L’ex sindaco, però, parla di unità del centrosinistra...

Pisapia ha ragione, ma questa unità non può essere pastrocchio di entità che si odiano una con l’altra, come Pd e Mpd: non confondiamo la realtà con geometrie coalizionali spesso un po’ fantasiose. L’ex sindaco deve poi dirci concretamente che cos’è l’unità del centrosinistra, l’alleanza con D’Alema? E’ chiaro che sia inaccettabile e che i cittadini ci prenderebbero per pazzi.

Guardando all’esterno, i 5 Stelle sono ormai la forza da battere. Il Pd ha gli anticorpi per farlo?

Dobbiamo confrontarci con Grillo a viso aperto e sulle proposte per il Paese. Non dobbiamo cadere nell’errore di demonizzarli, ma il Pd deve offrire a chi li vota proposte programmatiche più efficaci di quelle dei 5 Stelle. Penso, per esempio, al dibattito sui vaccini: secondo me molti elettori grillini hanno visto i danni reali alla vita delle persone provocati dalla confusione e dal dietrologismo di Grillo.

Per confrontarsi, però, serve una legge elettorale.

Sono contrario a leggi elettorali fatte ad hoc per escludere i 5 Stelle dal governo e anche alle coalizioni, che avrebbero il solo scopo di contenerli. I 5 Stelle non vanno contenuti, ma battuti sul piano politico di fronte agli italiani. Io credo a una competizione chiara, anche di tipo maggioritario, e vediamo chi vince.