«Quante volte bisogna essere assolti in Italia per liberarsi di un’accusa?». È un fiume in piena Daniela Poggiali. Sbattuta in prima pagina come “l’infermiera killer”. Protagonista di un teorema basato «sul nulla». Che ora grida la sua rabbia da donna libera, dopo che lunedì scorso la Corte di Assise di Appello di Bologna l’ha assolta due volte perché il «fatto non sussiste». Parliamo di sei processi, oltre mille giorni di carcere, tre assoluzioni per il caso Calderoni con l’appello ter, dopo una prima condanna all’ergastolo. Per raggiungerla al telefono bisogna inventarsi una diavoleria. È una delle cose che le hanno tolto negli ultimi sette anni. Insieme a un pezzo di vita. Ma non c’è solo la rabbia, Daniela ha con sé la speranza che non l’ha «mai abbandonata». Ha retto con forza e lucidità al carcere, racconta al Dubbio, ma «lì si può perdere la testa».

Ma ora è libera. Da dove inizia?

Adesso sto riassaporando un po' il piacere della libertà, delle piccole cose. Come prendermi un caffè, passare del tempo con i miei affetti. Le cose più semplici.

Però il carcere non è stato una passeggiata.

Dieci mesi di carcere l’ultima volta. Più 33 mesi la prima volta. Nel 2014 ho dovuto fare anche un anno di carcerazione preventiva in attesa del processo Calderoni, con addosso l’accusa mediatica che mi portavo dietro.

Di cosa la accusavano i media?

Accuse terribili. Mi attribuivano un numero di morti impressionante. Ricordo ancora che un giornale inglese parlò di cento casi di morte sospette, dipingendomi come l’angelo della morte. Ma erano accuse che si basavano sul nulla: non c’erano prove, solo indizi, supposizioni, chiacchiericci. Le indagini si concentrarono su 38 cartelle cliniche, ma a processo ne arrivò solo una.

Il suo avvocato ha parlato delle modalità con cui i dipendenti Ausl repertarono il deflussore, il “corpo del reato”, nel quale furono rinvenute tracce di potassio. E ha definito quelle indagini amministrative “inaffidabili”, “abusive”. Cioè non autorizzate dall’autorità giudiziaria.

Esattamente, a scapito delle mie garanzie difensive. Hanno raccolto degli elementi, che non stavano in piedi, e hanno fatto in modo che questi elementi portassero alla accusa di omicidio per la somministrazione colposa di potassio. A volte mi sembra ancora tutto così surreale.

Ricorda come venne a sapere delle indagini?

Inizialmente fui allontanata dal reparto, mi misero in ferie sulla base di una statistica interna dalla quale emergevano alcuni decessi sospetti ricollegabili ai miei turni di lavoro. Ero certa che le cose si sarebbero risolte nel giro di qualche giorno. Ma lì è cominciato tutto. Dopo qualche giorno, era l’aprile del 2014, mi sono ritrovata i carabinieri sotto casa per una perquisizione. Con tanto di avviso di garanzia per la vicenda di Rosa Calderoni. Mi cadde il mondo addosso, mi chiedevo se stesse succedendo davvero o se si trattasse di un film.

Poi cosa accadde?

Mi ricordo che quella fu una giornata lunghissima, tesissima. Scandagliarono casa mia, e l’armadietto del lavoro. Non trovarono nulla, perché non c’era nulla da trovare. Cominciai a sperare che qualcuno si sarebbe reso conto che fosse un abbaglio. Ma le cose sono andate sempre peggio. Uscirono gli scatti fotografici, partì la costruzione dell’angelo della morte, l’attenzione mediatica, con i giornalisti attaccati al citofono. Tutti i giorni, sempre così. Un clima di tensione non indifferente da reggere, insieme alla mia famiglia costretta a tenere il peso di tutto questo. Fu un’escalation, fino all’arresto nell’ottobre del 2014.

E la custodia cautelare. Come ha vissuto i primi giorni di carcere?

All’inizio devi accettare di stare lì per un tempo indefinito, senza sapere se ne verrai fuori. Poi i giorni passano, noiosamente infiniti, lunghi, tutti uguali. A meno che tu non abbia voglia di leggere un libro o di fare qualche attività, che però sono poche. È un tempo di attesa. Aspetti il processo. Aspetti il colloquio con un familiare, delle buone notizie dall’avvocato.

Che rapporto aveva con le altre detenute?

Lì dentro non si guarda al reato commesso o a quello per cui si è incolpati, siamo tutti sulla stessa barca. I giorni sono tutti dolorosi per tutti, si piange a giorni alterni e ci si sostiene come si può. Mi sono sempre chiesta in carcere che fine avrei fatto se non avessi avuto il sostegno della mia famiglia, o la fortuna di avere un buon avvocato, come Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera, che hanno messo in campo la loro competenza professionale ma anche il cuore. A loro sono infinitamente grata.

Lunedì scorso la Corte di Assise di Appello di Bologna l’ha assolta due volte, per due distinti processi: il caso Rosa Calderoni, 78 anni, e Massimo Montanari, 94 anni, deceduti entrambi all’ospedale di Lugo, nel Ravennate, nella primavera del 2014. Si aspettava questo esito?

Sono felicissima di questa doppia assoluzione, che non capita di avere in un solo giorno. Certo è che fino all’ultimo momento, finché non suona la campanella in aula, e il giudice non si pronuncia in tuo favore, hai paura. I segnali erano positivi, come ho detto avevo fiducia nel lavoro dei miei avvocati. Ma la parola ultima la mette sempre il giudice.

Ora resta la possibilità, per l’accusa, di ricorrere in Cassazione.

Mi auguro e mi aspetto delle motivazioni blindate affinché la Cassazione o la procura metta davvero la parola fine. Altrimenti si tratterebbe di una storia infinita. Per quanto ancora devo difendermi in un’aula di tribunale? Quel serial killer che si aggirava nei reparti con il potassio in mano è frutto di una costruzione, non è mai esistito. E credo che a un certo punto bisognerebbe arrendersi all’idea di aver sbagliato e magari chiedere scusa.

Si aspetta delle scuse?

Credo che sarebbe il minimo, alla luce di quattro assoluzioni. Normalmente sul lavoro si ammette quando si sbaglia. E ricevere delle scuse sarebbe la cosa più bella, da cui ripartire.

Chiederà un risarcimento per ingiusta detenzione?

Per ora è prematuro, vedremo. Adesso mi godo la libertà. Sarebbe già tanto se riuscissi a tornare a fare il mio lavoro.

Vorrebbe tornare a lavorare come infermiera?

Perché no, ho sempre fatto bene il mio lavoro e so che potrei continuare a farlo bene. Bisogna che la gente venga lasciata vivere in pace dopo che è stata assolta.

Teme di non riuscire a ricostruire la sua reputazione?

Ci vorrà tempo. La mia vita è stata quasi interamente distrutta, bisognerà lavorarci. Sono stata radiata dall’ordine degli infermieri per quei due scatti fotografici, ho perso il lavoro. Mi hanno condannato prima ancora del processo, e nessuno si è ancora esposto a mio favore. Gli stessi giornalisti a distanza di anni, e dopo quattro assoluzioni, ancora oggi mi chiedono di quegli scatti. Ma di tutto il resto, della sofferenza che ho dovuto vivere sulle mie spalle, a nessuno interessa. Nessuno si indigna per come va certe volte la giustizia in Italia.

Veniamo alle foto, che la ritraevano “sorridente” accanto ad alcuni pazienti deceduti.

Mi dispiace molto per quello che ho fatto. Si è trattato di un errore deplorevole, una leggerezza commessa in un momento di lavoro. So che si fa fatica comprenderlo, ma noi sanitari lavoriamo con ritmi molto intensi, orari stressanti, a cui si aggiunge il carico emotivo pesante di lavorare con pazienti oncologici e geriatrici. Mi prendo pienamente la responsabilità di quello che ho fatto, tanto è vero che ho pagato, forse anche più del dovuto. Ma da qui a dipingermi come una persona malvagia, che deride la morte, capace di qualunque cosa, ce ne passa. A nessuno interessava capire di cosa era morta Rosa Calderoni. Ancora oggi il mio nome è associato solo a quell’immagine. E allora tutti gli anni che ho dovuto passare in galera per un’accusa infondata? Non dobbiamo indignarci perché una persona viva viene condannata ingiustamente?

In questi anni l’hanno descritta in molti modi, le hanno cucito addosso l’abito di “mostro”. Ha mai perso la speranza di affermare la sua innocenza?

La speranza l’ho persa quando ho visto come è iniziato il processo di primo grado a Ravenna, incentrato su quelle foto che mi avevano condannato prima di mettere piede in un’aula di Tribunale. Quando ho capito di subire un’ingiustizia ho trovato la forza di reagire, grazie al sostegno della famiglia e delle altre detenute, e di andare avanti per dimostrare la mia innocenza.

Poi la condanna all’ergastolo nel 2016, e la scarcerazione nel 2017 dopo la prima assoluzione in appello per il caso Calderoni.

Con formula piena perché “il fatto non sussiste”. Fu una grande gioia, che pensavo avrebbe messo fine per sempre a tutta questa vicenda. Salvo poi ritrovarmi in un’aula di tribunale due anni dopo.

E nuovamente in custodia cautelare nel 2020 per il caso Montanari, per il quale fu condannata a 30 anni in primo grado.

Quella fu l’ennesima cattiveria, un momento molto doloroso.

Come lo ricorda?

Era la vigilia di Natale, ero in casa con mia mamma quando suonò il campanello: di nuovo i carabinieri con un avviso di custodia cautelare. Sono sempre finita in carcere prima del giudizio definitivo sulla base della mia “pericolosità”. Nonostante avessi vissuto tre anni e mezzo da donna libera. Lì si ruppe di nuovo l’equilibrio che mi ero ricreata a fatica. Di nuovo rifiutarono la richiesta di scarcerazione, niente misure alternative, niente braccialetto. Come se fossi un cittadino di “serie b”, priva di diritti inviolabili. Di nuovo giorni infiniti in attesa del processo che speri ti possa ridare la libertà.

Cosa le fa più rabbia?

Aver perso giorni della mia vita che non torneranno più. E per fortuna non mi sono ammalata. Come capita a molti altri detenuti, che soffrono di problemi di salute non da poco, a cominciare dalla depressione. C’è anche chi si suicida. Per mia fortuna ho retto a livello della salute e a livello mentale.

E cosa l’ha ferita di più, in tutti questi anni?

Mi hanno ferito in maniera indelebile le motivazioni con cui il presidente del Tribunale della libertà rifiutò all’epoca la prima richiesta di scarcerazione, nel gennaio del 2015. Mi dipinse come una efferata assassina. E arrivò ad accostarmi ad Hitler.

Crede ancora nella giustizia, dopo averla conosciuta così da vicino?

Credo nella buona giustizia, nei buoni giudici che sanno riconoscere la verità senza farsi condizionare dall’opinione pubblica.