Per anni la stampa l’ha dipinta come “l’infermiera killer”. Peggio, come un “angelo della morte”. Ma per la Corte d’Assise di Appello di Bologna, Daniela Poggiali non ha mai commesso gli omicidi che le sono imputati. E anzi, non c’è stato alcun omicidio, perché per i giudici «il fatto non sussiste». L’ultimo atto di una battaglia giudiziaria durata sette anni - sei gradi di giudizio e in tutto quasi quattro anni di carcere - è stato scritto lunedì scorso con una doppia sentenza che assolve l’ex infermiera per la morte di Rosa Calderoni, 78 anni, e di Massimo Montanari, 94 anni, deceduti entrambi all’ospedale di Lugo, nel Ravennate, nella primavera del 2014. Da allora per Poggiali è iniziato l’incubo, una «via crucis giudiziaria», come la definiscono gli avvocati Gaetano Insolera e Lorenzo Valgimigli del collegio di difesa. Ma ora, nelle stesse ore in cui Poggiali ritrova la libertà dopo quasi un anno di custodia cautelare disposta la vigilia di Natale del 2020 per il Caso Montanari, di «questa vicenda occorre parlare ancora». Ne è convinto l’avvocato Insolera, per il quale un tale «moltiplicarsi dei giudizi» - nel caso Calderoni parliamo di una condanna all’ergastolo in primo grado, due assoluzioni in appello, annullate dalla Cassazione per vizio di motivazione, fino all’ultima sentenza assolutoria di appello ter - rappresenta «un’anomalia». Un’anomalia certamente giustificata dalla difficoltà tecnica che ha contraddistinto i processi, quasi interamente basati sulla prova scientifica. Ma a un cittadino che finisca nelle maglie della giustizia non può prospettarsi un prolungamento infinito e indefinito del processo. Soprattutto se, come nel caso Poggiali, una manciata di giudici - 18 tra popolari e togati - decidendo nel merito, e quindi sui fatti, hanno assolto l’imputata «perché il fatto non sussiste». E cioè adoperando la più netta tra le formule assolutorie. Ben oltre quella che ancora impropriamente chiamiamo “insufficienza di prove”. «Un incubo kafkiano si è riprodotto in questo processo. Siamo puntualmente tornati da capo. Ma quante volte bisogna essere assolti per essere liberati da un’accusa?», si chiede oggi l’avvocato Valgimigli. «Se la regola di giudizio è che sia sufficiente un dubbio ragionevole, due assoluzioni potranno ben concretare almeno un dubbio», prosegue il legale. Siamo di fronte a una «giustizia che può essere intesa in termini persecutori nei confronti del cittadino che ci piomba nel mezzo», gli fa eco Insolera. La ragione? «Credo che abbiamo vissuto un periodo storico, del quale speriamo di liberarci presto, in cui le regole di civiltà giuridica sono risultati soccombenti, cedevoli», risponde Valgimigli. E di quali principi parliamo è presto detto: presunzione di non colpevolezza e ragionevole durata del processo, entrambi scolpiti nella Costituzione. «Avere la Costituzione sulle labbra e poi non praticarla nel concreto, non averla nel cuore, a cosa serve?», si domanda ancora Valgimigli. Per il quale l’intera vicenda risulta quasi «irragionevole». Roba da far «tremare le vene e i polsi», chiosa Insolera. E a ben vedere, quando proviamo a ricostruire la vicenda processuale, ci troviamo di fronte a un vero e proprio rompicapo. Tutto inizia nell’ottobre del 2014, quando Poggiali viene arrestata per l’omicidio di Calderoni, secondo l’accusa uccisa con un’iniezione di potassio a poche ore dal ricovero, l’8 aprile dello stesso anno. Solo in seguito è scaturito il secondo filone processuale, il caso Montanari: un processo “gemello”. Meglio, un processo “stampella”, all’esito del quale Poggiali è stata condannata a 30 anni di carcere in primo grado, e infine assolta lunedì scorso con il doppio dispositivo che ha ricondotto allo stesso epilogo i due processi proseguiti parallelamente. Con una differenza sostanziale. In questo secondo caso, per la morte dell’uomo, l’accusa ha ipotizzato un movente preciso: Montanari era l’ex datore di lavoro dell’allora compagno di Poggiali. Un «gossip», come lo definisce l’avvocato, vuole infatti che l’ex infermiera si trovasse nella stanza di Montanari al momento della morte. Una circostanza però mai avvalorata con testimonianze a processo. E da cui scaturisce una prima sentenza di condanna basata, secondo i legali, sulla colpevolezza accertata in primo grado nel caso Calderoni. A nulla era valsa “la prova alibi”, così come i giudici avevano definito il risultato dell'emogas eseguito sulla paziente in prossimità della morte, che restituiva un valore di potassio nel sangue nella norma. Circostanza messa in dubbio dall’accusa attraverso una nuova prova scientifica avvalorata da una tecnica - adoperata dal consulente tecnico della procura - che nell’appello ter è risultata essere però sperimentale e poco attendibile. Nel mezzo - lungo i sei processi - si susseguono nuovi sospetti, testimonianze, e accuse di depistaggio a carico di Poggiali. Ma soprattutto, nel mezzo, compare una foto - quella che ritrae l’ex infermiera vicino a un paziente deceduto mentre mostra le dita in segno di vittoria - che contribuirà più di ogni perizia scientifica all’immagine del “mostro”, della colpevolezza incontrovertibile. Per quello scatto Poggiali è stata in seguito radiata dall’ordine. Una foto choc che oggi l’ex infermiera definisce il «suo unico errore», un errore pagato «fin troppo». Che si somma a quella suggestione di trovarsi di fronte a un “angelo della morte” che ha indirizzato l’intera vicenda e probabilmente il primo processo conclusosi con la condanna all’ergastolo decisa dalla Corte d’Assise di Ravenna. All’epoca «vi fu una grande forzatura mediatica, soprattutto a livello locale», spiegano ancora i legali. Una campagna mediatica orientata dagli organi inquirenti «sull’onda della fisionomia personologica dell’imputata» che poté condizionare il giudizio. Il vero giudizio che seguì al verdetto della stampa, la stessa che ancora oggi riporta in pagina quello scatto che ad ogni udienza veniva riproposto sullo schermo gigante dell’aula del Tribunale di Ravenna.