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MANIFESTAZIONE CONTRO DDL SICURAEZZA CARTELLO CARTELLI NO CPR NO LAGER DI STATO
La Corte Costituzionale ha alzato un velo su un’altra zona d’ombra della nostra legislazione: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Con la sentenza 96/2025, i giudici costituzionali mettono a nudo un nodo mai sciolto: come si può privare della libertà personale senza regole chiare su tempi, luoghi e garanzie?
Il fatto è noto: chi deve essere rimpatriato finisce nei Cpr, edifici gestiti dallo Stato ma regolati da un insieme di norme – leggi, decreti, circolari, capitolati d’appalto – talmente disomogeneo da costruire, di fatto, protocolli diversi in ogni provincia. La Corte sottolinea che l’articolo 13 della Costituzione non si accontenta di stabilire “quando” lo Stato possa limitare la libertà: pretende che la legge disciplini “come”. E oggi quel “come” è demandato quasi tutto al questore, o finisce in un limbo di direttive ministeriali e regolamenti del ’99 che mancano di ogni dettaglio operativo.
Fra le lacune più vistose ci sono le condizioni strutturali: standard igienico sanitari? Quanti metri quadri per detenuto? Vie d’aria, spazi di socialità, accesso a cure mediche, colloqui con gli avvocati? Poco o niente viene descritto a monte in un testo di rango primario. Il risultato è un mosaico di prassi, spesso lasciato alla discrezionalità dei gestori, che espone i trattenuti a situazioni di vita quotidiana senza certezze né adeguati controlli. Eppure, se si trattasse di pazienti psichiatrici internati nelle Rems o di detenuti nelle carceri, le regole sarebbero dettagliate fin nei minimi particolari: orari d’aria, visite mediche, procedure di reclamo. Nei Cpr, invece, si ripete una formula generica: “piena dignità”, “adeguati standard”, “diritto di accesso al Garante”. Parole onorevoli, ma vuote di ogni sostanza quando mancano parametri operativi.
Rileva la Consulta che nemmeno il quadro europeo supplisce a questa confusione. Le direttive Ue sul rimpatrio e sull’accoglienza contengono princìpi generali di dignità, proporzionalità e necessità, ma non vincolano con standard pratici: non definiscono come organizzare l’assistenza sanitaria, quanti giorni di aria all’aperto, quali tutele giudiziarie. E la Cedu, con le sue sentenze, è arrivata a bacchettare l’Italia per eccessi nella privazione della libertà, ma non può sostituirsi a una legge nazionale. Il verdetto? Le questioni di legittimità sollevate dai ricorrenti sono inammissibili, perché la Consulta non può colmare con l’interpretazione l’assenza di un testo organico. Ma il giudizio è netto: la situazione non è conforme al dettato costituzionale e resta un vulnus che tocca il bene più prezioso di un individuo: la libertà.
A questo punto, l’appello va al Parlamento: serve subito una disciplina primaria che definisca, per tutti i Cpr, standard di architettura, regole d’ingresso e di esecuzione del trattenimento, garanzie sul versante sanitario, meccanismi di reclamo veloci ed efficaci e, infine, ruolo preciso dell’autorità giudiziaria. Senza questo passaggio, il sistema rischia di perpetuare un regime a geometria variabile, dove i diritti variano da un centro all’altro e la Costituzione resta incompiuta.
Le reazioni dei garanti e di Antigone
Antigone non si accontenta di un’ammissione di principio. “La Corte costituzionale riconosce la violazione dei diritti delle persone migranti recluse nei centri” tuonano da tempo gli attivisti. Con la sentenza 96/2025, spiegano, la Consulta manda un messaggio chiaro: trattenere qualcuno in un Cpr vuol dire limitare la libertà personale, e questo non può avvenire senza garanzie certe, come prescrive l’articolo 13 della Costituzione. Al momento, però, non esiste alcuna legge che spieghi nel dettaglio come debba svolgersi quella privazione: regole generiche, circolari, capitolati d’appalto e regolamenti amministrativi lasciano un enorme margine di discrezionalità, terreno fertile per abusi continui.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, non usa mezzi termini: «La libertà personale è oggetto di riserva di legge assoluta. È sacra. Non si può trattare una persona senza titolo di soggiorno come peggiore di un detenuto, negandole diritti alla salute, all’integrità psicofisica, alla dignità. Avremmo voluto una sentenza che smantellasse un sistema che crea dolore illegalmente, ma questo passo è comunque importante». Antigone aveva depositato il proprio intervento davanti alla Consulta per evitare discriminazioni e abusi strutturali: la Corte l’ha riconosciuto.
Sul fronte istituzionale, ritroviamo lo stesso grido d’allarme nel comunicato congiunto del Garante della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e della Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone. Ricordano come, nelle loro opinioni amicus curiae, avessero già evidenziato l’assenza di un giudice ad hoc per valutare le lesioni ai diritti fondamentali delle persone trattenute. «Un riconoscimento dell’illegittimità della detenzione nei Cpr, totalmente priva di riferimenti sui modi e limiti, in violazione dell’art. 13», sottolineano. E confermano: «La Corte rimette al legislatore la responsabilità di colmare questa gravissima lacuna che lede diritti umani fondamentali. Continueremo la nostra azione finché questo scandalo non avrà fine».
Se c’è un filo rosso che attraversa tutte le voci - Consulta, Antigone, Garanti - è la stessa denuncia: nessuno potrà tacere che, mentre altrove si invocano procedure dettagliate per ogni minima fase di limitazione della libertà, nei Cpr regna il vuoto. Spetta ora al Parlamento scrivere una legge organica, che stabilisca standard uniformi su strutture, spazi, servizi sanitari, tempi di trattenimento, poteri e controlli. Senza questo atto, ogni centro rischia di restare un microcosmo senza regole, dove i diritti rimangono parole sul quarzo di una sentenza. E la libertà, ancora una volta, resta appesa a un filo.
L’ultimo grido di dolore
Quel buio rincorre l’eco di un urlo spezzato appena due settimane fa: un ragazzo in boxer scappa tra i corridoi del Cpr di Gradisca d’Isonzo e finisce spinto contro uno scudo antisommossa; nella ripresa successiva, lo stesso corpo a terra, il volto coperto di sangue.
Un video choc, diffuso dalla rete “No ai Cpr”, che parla più di mille sentenze. Non è un caso isolato, avvertono i volontari: arrivi di segnalazioni settimanali, proteste per cibo immangiabile, scabbia in incubazione. Da Gradisca è partita la denuncia di Riccardo Magi (+Europa): «Un luogo di tortura, annichilimento e violenza. Andava chiuso, non esportato in Albania». Angelo Bonelli (Avs) ammonisce: «La risposta alle proteste non può essere il manganello. Il governo deve chiarire».
Debora Serracchiani (Pd) chiede la chiusura immediata per condizioni “estreme”. La questura replica: era un intervento dopo una rivolta, “lanci di bottiglie e frutta”, e - separata la colluttazione - un “accidentale caduta” dell’ospite. Ma la memoria non si placa davanti alle versioni ufficiali: resta l’immagine di un ragazzo inerme, ferito in un