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Marco Di Liddo, direttore del Cesi
La tregua olimpica? Solo una pia illusione. La polveriera mediorientale sta per esplodere. Nel giro di poche ore Israele ha colpito Beirut e Teheran. A sud della capitale libanese è stato ucciso il numero due di Hezbollah, Fuad Shukr. Poco dopo è stata la volta del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, eliminato in Iran. Con buona pace dei tentativi di un negoziato per la tregua a Gaza, avviati nelle ultime settimane, come spiega il direttore del Cesi (Centro studi internazionali) Marco Di Liddo.
Direttore Di Liddo, con l’eliminazione di Ismail Haniyeh, l’escalation in tutto il Medio Oriente è inevitabile?
In tutto il Medio Oriente no. È stato comunque lanciato un segnale fortissimo da parte di Israele. L’operazione condotta a Teheran va ulteriormente a delegittimare il negoziato per la tregua a Gaza. Come si fa a trattare se le parti ancora si sparano l’una contro l’altra? Come si fa a negoziare se Israele decide di colpire il leader politico di Hamas mentre questo si trova a Teheran? Badiamo bene, però: le considerazioni di legittimità sussistono, nel senso che Israele ha buoni motivi per realizzare azioni come quelle di Beirut e Teheran. Avrà fatto i propri calcoli politici, ma il risultato agli occhi degli osservatori internazionali è uno soltanto: il negoziato non esiste, è solo una copertura.
Israele sta calcolando i rischi militari delle proprie azioni?
Sì, assolutamente. Li calcola tutti i giorni. Israele ha la convinzione di poter gestire la reazione degli avversari. Nel momento in cui i vertici di Hamas vengono via via decapitati, le minacce per Israele non diminuiscono. Potrebbero diminuire nel breve periodo: l’Occidente ha passato una vita a decapitare i vertici di diverse organizzazioni terroristiche in Europa e a casa di chi era considerato un pericoloso terrorista. Pensiamo ad Al- Qaeda e a quelle organizzazioni terroristiche che ancora sopravvivono, continuano a proliferare in tante parti del mondo e a porre una minaccia concreta e reale.
Dopo Beirut e Teheran, si segnalano esplosioni a Damasco. Gli interventi militari israeliani stanno incendiando l’intera regione con il rischio di una deriva incontrollabile?
Assolutamente sì. Con l’uccisione a Teheran di Haniyeh, è stata colpita anche la credibilità politica e militare dell’Iran. È stato bombardato il Libano per colpire obiettivi di Hezbollah, organizzazione sciita appoggiata dall’Iran. Si colpisce Damasco perché in Siria Iran e Hezbollah hanno un porto franco dove andare. L’Iran e Hezbollah hanno dato un contributo importante nel salvare Assad nel momento più duro della guerra civile siriana.
Gli attacchi di Israele sembrano il frutto di una chiara strategia del governo Netanyahu: ogni volta che si avvicina una tregua per Gaza, eventi disastrosi la frantumano, con forti divisioni nell’opinione pubblica israeliana.
C’è una parte dell’opinione pubblica israeliana che vorrebbe una soluzione più negoziale, che crede ancora nel dialogo, ma c’è un’altra parte, altrettanto forte, che invece vuole la distruzione completa di qualsiasi minaccia reale o potenziale alla sicurezza di Israele. Se il governo Netanyahu sta operando in un certo modo, non è soltanto perché il primo ministro ha in patria ancora qualcuno che lo sostiene e che condivide la sua linea sulla guerra, la parte più conservatrice e più estremista di destra, ma soprattutto perché i Paesi arabi, al di là di una condanna di facciata, ad oggi non hanno posto la questione palestinese in cima alle loro priorità politiche.
Teheran ha accusato Israele di gravi violazioni del diritto internazionale. C’è il rischio che si alimenti il terrorismo di Stato?
Il rischio dell’escalation è concreto e lo stiamo verificando da mesi. Ci sono tante forme di reazione che potrebbero essere messe in campo. C’è una forma di reazione convenzionale, vale a dire quella strettamente militare. Credo che la minaccia più concreta che possa portare Teheran sia quella non convenzionale, ibrida, che si appoggia sulle milizie. In questo contesto farà leva su Hezbollah e sugli Houti, senza trascurare altre attività, come quelle legate agli attacchi cyber e alla propaganda che gli iraniani maneggiano con discreta maestria. Tutte azioni che potrebbero contribuire a mettere in difficoltà Israele.
La Turchia ha espresso parole moto dure. Erdogan ha, addirittura, paventato un’invasione ai danni di Israele. È una provocazione?
Si tratta di una provocazione fino a un certo punto. Non dobbiamo mai dimenticare qual è il ruolo della Turchia nello scacchiere internazionale. Questo Paese fa parte della Nato e da dieci- quindici anni a questa parte ha cominciato a fare una politica estera molto autonoma, fuori dagli schemi e dai perimetri atlantici. La Turchia si trova nella Nato, ma al tempo stesso non è un Paese euro- atlantico. Tale situazione la spinge ad avere una politica estera con paradigmi differenti. Erdogan sta riempiendo un buco. Molto intelligentemente, nel momento in cui ha capito che la priorità dei Paesi arabi era salvaguardare gli accordi di Abramo e quindi la normalizzazione con Israele, ha rivolto l’attenzione ad un enorme bacino da riempire che tiene conto del sentimento anti- israeliano e che fa leva sull’antisionismo. Erdogan punta a fare della Turchia uno Stato leader del mondo musulmano, nel momento in cui altri Paesi musulmani sulla questione palestinese hanno un approccio timido.