Nei prossimi giorni i problemi della giustizia saranno di nuovo attuali perché verranno in evidenza sia l’istituto della “prescrizione” che entrerà in vigore il 1 gennaio del nuovo anno, sia la nuova regolamentazione delle intercettazioni così come proposta nella passata legislatura dal ministro della giustizia Orlando.

Sono temi che si intersecano con la decisione della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, con l’inasprimento delle pene per i reati di evasione fiscale: sono principi che hanno una rilevanza fondamentale per mettere alla prova la cultura istituzionale del governo nella sua interezza, e mettono in luce il grado di maturazione democratica della classe dirigente che attualmente ci governa. È in atto la polemica sull’ergastolo ostativo e sulla sentenza della Corte Costituzionale, in linea con la Corte Europea, che ha cancellato il divieto di concedere i permessi premio ai condannati per mafia e ha stabilito che non si può fare una discriminazione tra chi collabora con la giustizia e chi si rifiuta.

La decisione della Corte Costituzionale afferma un principio di grande civiltà giuridica che qualifica l’Italia come punta avanzata, coerente con la grande tradizione giuridica da Beccaria in poi.

Prevale invece, nella polemica, la critica o addirittura la condanna per una decisione che, è stato detto, non può essere applicata in Italia dove lo Stato non è autorevole o non ha il controllo del proprio territorio. Si sono distinti i magistrati, giudici di sorveglianza e quella particolare stampa che esalta la carcerazione come l’unico rimedio per reprimere il male nel nostro paese! Questo giustizialismo acritico e purtroppo diffuso ha ispirato sotto tanti aspetti la politica del precedente governo soprattutto nella parte che si riferisce al movimento cinque stelle, ma sembra ispirare ancora il nuovo governo che ripropone le stesse cose. L’attuale ministro della giustizia ritiene che le manette agli evasori costituiscano una “svolta culturale“, affermazione che ove recepita in altri paesi e in Europa in particolare, squalificherebbe il nostro paese, perché la minaccia di “più galera“non è solo “bieco populismo“ come è stato detto, ma è una forma deteriore di plebeismo penale. Il proporre l’aumento delle pene come soluzione dei problemi è sintomo di incultura giuridica perché non solo i giuristi ma anche le persone di buon senso sanno che l’aumento della pena non è assolutamente un deterrente: basta conoscere la storia giudiziaria. Lo ha dovuto riconoscere anche un pubblico ministero di grande livello come Colombo riflettendo da pensionato che mette a frutto l’esperienza passata.

Ma tant’è, ci troviamo con una classe dirigente che su ogni questione difficile da gestire o da risolvere invoca una legge, proprio per evitare di risolvere il problema: è il segno del decadimento dei tempi contro il quale si dovrebbe opporre il PD che è alla prova della sua sussistenza e della sua consistenza culturale e politica soprattutto per la questione della prescrizione, di cui abbiamo fatto cenno all’inizio.

È stata approvata una legge che stabilisce la prescrizione “illimitata” dopo la sentenza di primo grado e se non la si modifica entrerà in vigore il prossimo anno. Può il PD consentire tutto questo?

Anche su questo problema il ministro Bonafede si è distinto per la sua acutezza!, sostenendo che la prescrizione senza limiti è “una riforma epocale”. Non credo ci siano parole per rappresentare la meraviglia e lo sgomento, per una simile dichiarazione.

Questa deviazione dai principi cardini della Costituzione e dall’ ordinamento deriva dalla cultura o dalla incultura del sospetto ( perché di questo si tratta) e prende origine dal iniziative giuridiche che vanno sotto il nome di Tangentopoli. Da quella stagione storica si è diffusa nell’opinione pubblica l’idea che i partiti sono sempre corrotti e che di conseguenza le istituzioni sono corrotte, e i politici sono corrotti; che basta cercare per trovare colpevoli dovunque. Questo messaggio fu seguito della Lega di Bossi, e dalla Lega di Salvini, dal PCI divenuto poi PDS, fino al PD ( che pure ha largamente sperimentato la furia giustizialista) e ancor più da cinque stelle che arriva a proporre di rendere il nostro ordinamento un sistema di processi infiniti, a vita, senza scampo. Insomma uno stato di polizia che, nella migliore tradizione autoritaria, spiega che chi non ha niente da temere non può temere la soppressione di questi diritti. Strana teoria, una aberrazione giuridica e morale che la società moderna e liberale sembrava averli superati per sempre.

È stato spiegato che questa legge poteva entrare in vigore quando si fosse stabilita la durata del processo, come se la durata del processo potesse essere stabilita per legge!?, ma anche su questo non si è comunque fatto niente. Se si sconvolge l’ordinamento è difficile poi correggerlo.

La Costituzione stabilisce che va assicurata una “ragionevole durata del processo” perché la potestà sanzionatoria dello Stato deve poter essere esercitata in un tempo ragionevole per l’armonia della società che nella sua essenza e nella sua vita organizzata deve poter vedere riparato lo strappo che il reato ha determinato, con una pena in grado di poter essere efficace. Quando il tempo del processo non è “ragionevole” lo Stato esercita una vendetta e non fa giustizia.

Si tratta dunque di problemi fondamentali ed essenziali per la civiltà del diritto, e il PD è chiamato a dimostrare la sua cultura istituzionale, il suo garantismo, altrimenti sarà responsabile di norme che intaccano il nostro ordinamento.

A proposito di garantismo in una recente intervista a un pubblico ministro molto noto e giurista di rilievo, Armando Spataro ha detto giustamente che il garantismo non è una qualifica ma è la regola nel senso che investe l’uomo nel suo essere: fosse vero e fosse caratteristica di tutti i pubblici ministeri la giustizia soffrirebbe di meno!

A tal proposito non posso non ricordare che l’ex pubblico ministero Di Matteo, ora componente del CSM, ha detto in una trasmissione televisiva che dopo la sentenza di condanna di Marcello dell’Utri appare chiaro che Berlusconi è “coinvolto” nelle stragi e nelle questioni di mafia. Argomentazione senza riscontri... ! Di Matteo come tutti i magistrati hanno sempre sostenuto che non si possono separare le carriere dei pubblici ministeri da quelle di giudici perché i p. m devono maturare la “cultura della giurisdizione”. Con le sue affermazioni Di Matteo dimostra in maniera eccelsa questa cultura.