“Pisapia sfascia la sinistra”, titolava ieri il Fatto concludendo a modo suo la riscrittura della biografia dell’ex sindaco di Milano nella quale si è cimentato anche Travaglio. L’accusa? “L’ipergarantismo”. Sarebbero stati sbagliati i clienti scelti come avvocato ma anche le scelte da parlamentare. Travaglio contro Pisapia La colpa? Essere garantista...

“Pisapia sfascia la sinistra”, titolava ieri il Fatto Quotidiano concludendo a modo suo la riscrittura della biografia dell’ex sindaco di Milano nella quale si è personalmente cimentato Marco Travaglio cominciando sabato scorso con un editoriale in cui gli dava del Forlano. Naturalmente, da Arnaldo Forlani, l’ex segretario della Dc difeso da Pisapia nelle aule dei tribunali negli anni di Tangentopoli, senza riuscire - notava Travaglio - a farlo assolvere. Oltre che “borghese un po’ agé”, una mezza calzetta da avvocato, quindi, lasciatosi in qualche modo corrompere interiormente dal suo cliente assumendone i presunti, peggiori difetti politici: il dire senza dire, il pensare una cosa e dirne un’altra, e via discorrendo. Come sfasciasinistra, in verità, anche se Travaglio ha omesso di ammetterlo, Giuliano Pisapia non dovrebbe essere considerato un solitario da cronisti e analisti politici così attenti come si sentono al Fatto. Quel campo politico ormai è affollato di sfasciacarrozze, come sconsolatamente osserva spesso Emanuele Macaluso senza fare sconti a nessuno, come invece ne fanno Travaglio e amici. I quali hanno un debole, per esempio, per i giustizialisti, di ogni risma e colore, che difendono ogni volta che ne hanno l’occasione, perdonando loro tutto ciò che non perdonano proprio a Pisapia. Di cui Travaglio ha lamentato “l’ipergarantismo”, rinfacciandogli non solo i clienti scelti come avvocato ma anche tutte, o quasi, le scelte compiute da parlamentare, quando gli è capitato di esserlo nelle fila della Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti.

Si deve a lui - gli ha rimproverato Travaglio - il mancato arresto di quel pericoloso delinquente che sarebbe Marcello Dell’Utri, prima della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa: lo stesso reato per il quale la Cassazione ha dovuto recentemente dichiarare priva di effetto la sentenza emessa contro Bruno Contrada dopo la bocciatura della giustizia europea. Che si ripeterà con Dell’Utri quando anche il suo caso arriverà al pettine. Si deve a Pisapia, ma non ho capito bene perché, il troppo poco tempo che trascorse in carcere Cesare Previti, dopo la condanna definitiva per corruzione in atti giudiziari, ottenendo di scontare il resto della pena ai cosiddetti servizi sociali.

Chissà, forse Pisapia non fece in tempo solo perché impegnato a fare il sindaco di Milano, e quindi distratto dalla professione forense, a risparmiare a Silvio Berlusconi i servizi sociali dopo la condanna definitiva, nell’estate del 2013, per frode fiscale e la decadenza da senatore con l’applicazione retroattiva, votata a scrutinio palese nell’aula di Palazzo Madama, della cosiddetta legge Severino.

Diabolico com’è, l’allora inquilino di Palazzo Marino sarebbe riuscito a trovare il modo per aiutare l’ex presidente del Consiglio, di cui sotto sotto Travaglio considera Pisapia un estimatore, al pari del solito Matteo Renzi. Che nello scenario post- elettorale del Fatto Quotidiano è già considerato l’alleato di Berlusconi in un nuovo governo delle larghe intese grazie alla rottamazione della sinistra cui si starebbe prestando appunto l’ex sindaco di Milano mandando a quel paese, o quasi, il dalemiano Roberto Speranza. Il quale dalle colonne del Corriere della Sera gli aveva appena intimato di accettare il calendario e tutto il resto del partito nato dalla scissione del Pd per costruire un’altra formazione ancora di antirenzismo esasperato, valutato dall’ex sindaco di Milano attorno al 3 per cento dei voti.

A Pisapia e altri compagni di partito, allora all’opposizione, Travaglio non perdona di essersi astenuti nel 2005 su una legge con la quale l’allora governo di Berlusconi cambiò i limiti di età per pensioni e promozioni dei magistrati consentendo che la carica di procuratore nazionale antimafia, da cui scadeva Pier Luigi Vigna, andasse a quell’intruso e abusivo di Pietro Grasso, l’attuale presidente del Senato, anziché a Gian Carlo Caselli. Per solidarietà col quale Grasso avrebbe dovuto rinunciare alla nomina e Pisapia, dal canto suo, alla convinzione espressa pubblicamente che non dovessero interessare più di tanto «i personalismi fra Vigna e Caselli».

Nella ricostruzione della biografia del Pisapia “ipergarantista”, peraltro affiancato da un Bruno Tabacci liquidato domenica sul Fatto Quotidiano come il peggio della tradizione politica della Dc, Travaglio ha dimenticato non so se più per pudore o per distrazione - il clamoroso passaggio del 2006. Quello fu l’anno del secondo governo di Romano Prodi, oltre che dell’elezione di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera e di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Il bertinottiano Pisapia nel tradizionale gioco del totoministri era considerato in viaggio verso il Ministero di via Arenula: quello della Giustizia. La competenza di certo non gli mancava. Ma il suo garantismo, o ipergarantismo, come lo chiama Travaglio, fece insorgere dietro le quinte la potente corporazione giudiziaria, alla quale Prodi non ebbe il coraggio di dire no. E non se ne fece nulla.

Ai bertinottiani toccò solo, per il buon Paolo Ferrero, il Ministero della Solidarietà Sociale, considerato più pertinente ad una forza di sinistra. In compenso, il partito dell’allora presidente della Camera ottenne ben sette posti di sottosegretario, nessuno dei quali però - guarda caso - destinato al Ministero della Giustizia. Dove arrivò come titolare Clemente Mastella: sì, proprio lui, il Mastella che dopo due anni, quando negli ambienti giudiziari si accorsero ch’egli riusciva a districarsi abbastanza bene fra le correnti delle toghe, con la furbizia e l’esperienza della Dc demitiana, sino a predisporre una buona disciplina delle intercettazioni, incappò - guarda caso - in uno scatenato capo procuratore della Repubblica della sua Campania sulla strada del pensionamento. Che trovò il tempo e la voglia di arrestargli la moglie, presidente del Consiglio regionale, e di mandarlo a processo come concussore, corrotto e quant’altro. Il bottino sarebbe stato un bel po’ di posti nel settore sanitario strappati dal partito di Mastella, l’Udeur, al governatore della regione Antonio Bassolino. Che però negava di avere subìto pressioni indebite.

Da quel colpo giudiziario e dalle conseguenti dimissioni di Mastella nacque una crisi di governo destinata a travolgere la legislatura e a provocare le elezioni anticipate, vinte dal centrodestra.

Mastella, familiari e amici hanno impiegato quasi dieci anni per essere assolti, ma Travaglio, che la sa sempre più lunga del diavolo, ha rovinato loro la festa avvertendo che contro Mastella pende ancora, sempre per quelle vicende, un altro processo, secondo lui il più grave, che potrebbe finire in tutt’altro modo per l’imputato. Mastella è stato insomma avvertito. Non è detto che una sentenza gli arrivi tra capo e collo per scalzarlo da sindaco di Benevento. Alla fame di dileggio che ha sempre il giustizialismo mediatico e politico manca il sollievo che potrebbe procurargli la notizia che Pisapia si sia offerto con Mastella per aiutare i suoi legali nel processo ancora pendente contro il pericolosissimo ex portavoce di Ciriaco De Mita.