Il rinnovamento della segreteria è necessario: per far posto a facce nuove in un mix con figure d’esperienza, tipo Piero Fassino, che hanno conoscenza del territorio. Matteo Renzi torna a Roma nella veste, diciamo così, per lui non proprio abituale di leader di partito e ristruttura la squadra che lo affiancherà nei prossimi passaggi politici. Ma un intervento di puro restyling non è la soluzione: più delle facce contano i contenuti. Che investono due fronti: il referendum sul job act, in particolare per il ripristino e l’allargamento dell’articolo 18 sulla cui ammissibilità si pronuncia oggi la Consulta; e la riforma elettorale con l’addio all’Italicum e su cui pure i giudici costituzionali sono chiamati ad esprimersi il 24 prossimo. Due appuntamenti che saranno decisivi ai fini del timing che, nella mente del leader del Pd, deve portare ad elezioni politiche a giugno.

Il punto politico vero è che in entrambi i casi, e proprio per la rilevanza degli argomenti, il Nazareno non può limitarsi a fare da spettatore. Occorre una iniziativa forte in grado di determinare gli eventi, rigettando la tentazione che i pasdaran renziani come Roberto Giachetti esaltano: lasciar fare alla Corte Costituzionale e poi seguirne l’abbrivio. Che tradotto significa per il job act, usare l’eventuale sì all’ammissibilità come arma per accelerare le urne; per la legge elettorale spazzare via ogni tipo di melina parlamentare e andare al voto con i meccanismi stabiliti dai giudici costituzionali.

Tentazione forte, che lascia campo libero alla voglia di rinvincita che i fan renziani covano dopo la batosta del 4 dicembre. Ma è più che evidente che in entrambi i casi si tratta di una road map piena di insidie e con rilevanti minacce di impraticabilità.

Il job act rappresenta il cuore del riformismo renziano. Accogliere il via libera della Corte per usarlo strumentalmente a favore di elezioni che impedirebbero il referendum non solo offrirebbe il fianco all’accusa di tatticismo esasperato ma soprattutto potrebbe essere letto come un segno di debolezza e non di forza. Ma anche se la Corte bloccasse il quesito sull’articolo 18 resterebbero in piedi gli altri su voucher e appalti. Vero è che basterebbe una legge per annullarli e il ministro Poletti, sul quale pende una sfiducia al Senato, insiste per intervenire; vero anche che metterla nero su bianco potrebbe diventare una via crucis con insidie dietro ogni angolo.

Per non parlare della riforma elettorale. Innanzi tutto l’idea di andare al voto con i moncherini del Consultellum proporzionale al Senato e dell’Italicum maggioritario alla Camera si scontra con l’opposta impostazione del Quirinale che reclama l’armonizzazione dei due meccanismi. In secondo luogo, per arrivare al voto in quelle condizioni bisognerebbe affondare il governo Gentiloni: o costringendolo alle dimissioni ( ma il Colle potrebbe comunque rimandarlo alle Camere per verificare la sussistenza della fiducia) oppure votandogli contro. Due percorsi fortemente autolesionistici.

Ma poi c’è un’altra considerazione, più di fondo. L’elemento che maggiormente ha caratterizzato la traiettoria politica di Matteo Renzi e ne ha decretato il successo è stato il suo interventismo, per qualcuno addirittura esagerato ma comunque decisivo. La dinamicità di Renzi, la sua voglia di interveniere e incidere, la velocità e capacità di stare sui fatti, la disinvoltura a cavalcare temi anche lontani dalle radici della sinistra sono altrettanti tratti che hanno delineato il profilo di una leadership fortemente innovativa e di caratura quasi rivoluzionaria. E questo indipendentemente dal giudizio positivo o negativo sui risultati finora ottenuti. Sarebbe davvero innaturale se per pura strumentalità o per opportunismo l’ex premier ora si snaturasse attendendo gli eventi invece di tentare di determinarli. Si tratterebbe di una mossa straniante e gravida di conseguenze non solo sul risultato elettorale ( un’altra sconfittta quali contraccolpi avrebbe?) ma anche ai fini dell’altra necessità cui Renzi deve far fronte: l’obbligo a dotarsi di una narrazione diversa rispetto a quella che l’ha portato a palazzo Chigi, che ha esaurito la sua spinta e che non è più riproponibile. Per usare un linguaggio antico, il segretario del Pd è chiamato a individuare una linea politica sulla quale collocare il Pd, se possibile in maniera unitaria, e con la quale portare il suo popolo alle urne. Rottamazione e modifiche della Costituzione sono stati propellenti che hanno garantito un percorso lungo e colmo di soddisfazioni sia personali che politiche. Ma il trionfale successo del No ha resettato quel patrimonio. Adesso si tratta di ricostituirlo partendo da basi nuove con parole d’ordine capaci di galvanizzare il corpaccione del partito scosso dall’ultima, bruciante, sconfitta. E forse mettendo la sordina al conflitto con la sinistra interna che ha segnato l’intera epopea renziana e che invece cova ancora - a quanto pare alla grande - nel segmento del renzismo ultrà.

Difficile prevedere se Renzi accetterà questo tipo di sfida. Ma è invece più agevole sostenere che se alla fine opterà per farsi trascinare dagli eventi la sua immagine e il suo carisma ne subiranno le conseguenze. L’aura vincente e lo spessore della sua leadership verranno intaccati. Forse addirittura avviandole al declino.