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riforma cartabia
I difensori Andrea Pieri e Gabriele Parrini, legali di Gianluca Paul Seung, il 35enne di Torre del Lago (Lucca) accusato di omicidio premeditato per l'aggressione mortale alla psichiatra Barbara Capovani, sono stati aggrediti verbalmente sui social da parte di molti hater che li hanno accusati di difendere l’uomo, facendo la solita assimilazione tra difensore e assistito. Ne parliamo con il professore avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, da poco entrato a far parte della Commissione di studio per la riforma del processo penale, istituita dal ministro Carlo Nordio e che sostituisce il precedente tavolo tecnico.
Professore, siamo alle solite?
Purtroppo sì. Non si comprende che il difensore svolge un ruolo essenziale nel processo e per la giurisdizione che è quello di essere il garante dei diritti processuali dell’imputato. Invece viene identificato con il suo assistito e con la sua posizione. In questo specifico caso l’imputato ha il diritto di vedersi prosciolto proprio per mancanza di imputabilità. Il difensore non sta facendo altro che garantire il giusto processo al suo assistito. In Italia dobbiamo fare un salto culturale e comprendere che il difensore è un elemento imprescindibile della giustizia penale, il cui compito è quello di difendere i diritti processuali che spettano a chiunque.
Secondo lei è davvero possibile questo salto culturale, considerata la vastità del fenomeno?
A mio parere è possibile partendo dalla versione che i media danno della vicenda. La stampa deve farsi parte diligente e assumersi anche la responsabilità civile di rappresentare il ruolo del difensore per quello che è scritto nella Costituzione. Quest’ultima non parla espressamente di difensore, tuttavia la difesa è prevista dall’articolo 24 comma 2 (“La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, ndr). E non scordiamo il 111 che garantisce il giusto processo nel contraddittorio delle parti. I media devono essere in grado di spiegare che la funzione del difensore non è quella di garantire l’impunità del suo assistito o usare escamotage per ledere gli interessi delle vittime. Egli è il garante della legalità processuale, del rispetto dei diritti dell’imputato. Poi si può anche discutere della previsione di non condannare chi è incapace di intendere e volere, principio di civiltà giuridica che nessun Paese ha messo in discussione, ma con questo la figura del difensore non c’entra nulla perché garantisce l’esatta applicazione della legge nell’interesse del suo assistito.
Lei crede che alla base ci sia anche l’equivoco per cui la verità processuale debba necessariamente corrispondere a quella storica?
Sicuramente sì. E le dirò di più: l’opinione pubblica tende a credere che la verità processuale sia solo quella rappresentata dalla pubblica accusa. Al contrario, essa scaturisce dal confronto dialettico tra pubblico ministero e avvocato difensore, che poi verrà cristallizzato in una sentenza. Sono principi elementari ma nel nostro Paese purtroppo siamo all’anno zero della civiltà giuridica. Quindi occorre ricostruire anche un sistema di narrazione corretta di quello che è il processo penale in un Paese democratico. La deriva che abbiamo preso non mi preoccupa solo da giurista, ma anche come cittadino, di chi tiene ai valori di una sana democrazia.
Professore, mi corregga se sbaglio: qualora fosse ritenuto non imputabile non andrebbe in carcere ma in altra struttura, privato dunque della libertà personale, dove potrebbe paradossalmente restare rinchiuso più anni rispetto a quelli comminati con una condanna all’ergastolo. Perché questo non basta ma si pretende il carcere?
Perché si vuole creare l’allarme sociale, prodromico alle riforme sempre più restrittive e punitive. Non esiste da parte di una certa stampa la volontà di dare una visione equilibrata del fenomeno. Invece c’è l’interesse opposto: creare allarmismo.
Lei imputa molta responsabilità alla stampa. E la politica forcaiola?
Si tratta di un circuito vizioso: l’allarme sociale determinato da certa informazione giustizialista poi si va a riflettere nelle scelte del legislatore. E la politica, che deve giustificare le sue decisioni, può anche avere l’interesse ad innescare questo corto circuito. Quindi l’input potrebbe partire anche da alcune forze politiche.
Molto spesso si parla di cultura della giurisdizione. Ha anche lei a volte la percezione che per qualcuno all’interno della magistratura l’avvocato non vi appartenga?
Certamente. Esiste una concezione autosufficiente e autoreferenziale della giurisdizione per cui si ritiene che l’intervento del giudice e del magistrato requirente sia più che sufficiente per ottenere il risultato della giustizia. Invece la cultura del giusto processo è quella del contraddittorio. Senza la difesa non può esserci un processo. La magistratura ha questa tendenza a rappresentare la giurisdizione solo con gli interventi degli organi dello Stato ma non è così in nessun Paese liberale e democratico. Poi non dimentichiamo che c’è questa posizione asimmetrica dello Stato che accusa un individuo: quindi non possiamo fare a meno del soggetto che garantisce i diritti di chi viene accusato. Altrimenti quella asimmetria diventa schiacciante e intollerabile.
Questo salto culturale non dovrebbe vedere uniti avvocatura e magistratura giudicante? In fondo quando un giudice derubrica o assolve viene aggredito come gli avvocati.
Anche in questo caso sono d’accordo con lei. Ci sono delle resistenze da vincere soprattutto nella magistratura inquirente. Torniamo alla vecchia questione della netta separazione degli ordinamenti tra giudicanti e requirenti. Ma al di là di questo occorre che l’operazione culturale sia molto importante e che la magistratura, nel suo insieme, si impegni nel comunicare meglio all’esterno, disinnescando sul nascere quel corto circuito a cui facevamo riferimento.
Lei condivide il fatto che alcuni avvocati presentino querela contro coloro che sui social li hanno aggrediti per la loro funzione?
Tendenzialmente non credo nell’intervento repressivo su tutte le manifestazioni delle opinioni, anche quelle più becere e censurabili. Credo che sia fondamentale, anche attraverso l’uso dei social, porre un freno a quel processo social-mediatico, che non ha nemmeno il minimo filtro rappresentato dai professionisti dell’informazione. Occorre davvero fare un ragionamento a 360 gradi sulla possibilità di garantire un uso corretto di questa tribuna pubblica che sono i social media e al tempo stesso, però, non pensare solo ad interventi repressivi, perché credo che in ogni caso entrino in conflitto con i principi di libertà di una vera democrazia. Ancora una volta la vera soluzione è quella dell’approccio culturale, non solo repressivo, ma anche formativo. Al tempo stesso bisogna far sì che chi gestisce questi contenitori crei dei filtri che impediscano la celebrazione del processo social-mediatico, in quanto la giustizia è una questione troppo seria da esser trattata in modalità “chiacchiera da bar”.