Doveva essere la Tangentopoli europea. Michel Claise, il giudice istruttore, il Di Pietro belga che inchiodava i politici brutti e cattivi, necessariamente autori delle peggiori nefandezze. Ma a oltre due anni dagli arresti che hanno scosso Bruxelles e fatto esplodere il caso Qatargate, Eva Kaili e Francesco Giorgi tirano le somme in maniera drastica: di quell’inchiesta non è rimasto nulla. L’ex vicepresidente del Parlamento europeo e suo marito, ex assistente parlamentare di colui che è considerato al vertice di questa cupola - Pier Antonio Panzeri - hanno deciso di parlare per la prima volta in Italia con il Dubbio, al Salone del Libro di Torino, ribaltando completamente la narrazione dominante. Non più l’epopea di un’operazione anticorruzione esemplare, ma il ritratto amaro di una giustizia che ha smarrito la bussola. Un’inchiesta nata fragile e trasformata in una caccia alle streghe, mentre il Parlamento ha preferito la comodità del silenzio alla difesa dei suoi membri. Un impianto accusatorio, dicono, costruito “a tavolino”.

«Ciò che rimane - spiega Kaili - è un colossale fallimento. Presentata come un’operazione anti-corruzione dell’Ue, si è rivelata un’inchiesta priva di fondamenta, piena di violazioni dello Stato di diritto. Le ipotesi sono state sostenute solo da confessioni estorte, con un procedimento giudiziario che oggi imbarazza persino chi l’ha avviato. I giudici si sono dimessi, il procuratore ha abbandonato il caso, il capo investigatore ha ammesso che il 'pentito' mente». Ma la macchina della giustizia belga sembra non volersi rassegnare. E anziché chiudere le indagini e tirare i fili di quanto fatto, ha deciso di chiedere la revoca dell’immunità per altre due parlamentari, le dem Alessandra Moretti ed Elisabetta Gualmini. che pur senza elementi chiari rischiano l’immunità, come capitato a Kaili, che vide i suoi colleghi, quasi tutti, abbandonarla. Ed è per questo che, per la politica greca, il primo ad uscirne distrutto è proprio il Parlamento europeo. «La Presidente ha fallito nel suo dovere più sacro: difendere la democrazia e l’inviolabilità delle istituzioni - spiega -. Ha sostenuto la narrativa sensazionalistica della procura belga senza verificare i fatti, nemmeno permettendo le audizioni trasparenti che avevo richiesto».

Perché Kaili, infatti, voleva essere interrogata dai suoi colleghi, per spiegare cosa aveva passato, le violazioni subite. Ma nessuno ha voluto ascoltarla. «Non è forse sospetto? - chiede - Quando le contraddizioni dell’inchiesta sono esplose, alcuni colleghi hanno trovato il coraggio di parlare. Un’inchiesta politica che continua ad allargarsi dimostra solo che si tratta di una caccia alle streghe senza via d’uscita ». Una caccia alle streghe brutale, durante la quale Kaili e Giorgi hanno dovuto anche provare l’umiliazione del carcere. In un luogo, il Belgio, dove le celle sono tra le peggiori d’Europa. Ed è per questo che Kaili ha perfino parlato di tortura. «Ora non importa più, ma nessuno dovrebbe subire simili metodi. Essere separata da tua figlia, in isolamento, senza poter parlare con un avvocato è inaccettabile in una democrazia europea, ed è il più forte segnale d’allarme sul fatto che la sede delle istituzioni Ue debba essere cambiata - racconta -. I miei avvocati parlano chiaramente di abuso giudiziario e di un tentativo di spezzare la mia volontà. Il momento peggiore? Quando mi hanno detto che mia figlia sarebbe stata affidata ai servizi sociali. È stata una coercizione documentata nero su bianco». Un tentativo fatto anche con Giorgi: «Voltaire diceva che il grado di civiltà di una nazione si misura dallo stato delle sue carceri - racconta l’ex assistente parlamentare -. Le condizioni nel carcere di St. Gilles sono vergognose, ed è imbarazzante per il Belgio e per le istituzioni europee che parlano di rispetto dei diritti fondamentali. Mi ha fatto capire quanto i sistemi possano essere devastanti per chi subisce ingiustizie, e come i Paesi dell’Ue resistano alle riforme pur continuando a fare la morale agli altri. Le carceri sono sovraffollate, e abusano della custodia cautelare contro genitori coinvolti in casi ipotetici solo per finire sui giornali, mentre liberano terroristi o criminali violenti dopo 48 ore. Se vogliamo davvero definirci civili, bisogna investire nella giustizia riparativa e nel reinserimento». E la minaccia di strapparle la figlia «è stato il ricatto più vile: una bambina di 22 mesi come leva per ottenere dichiarazioni compiacenti e accordi di patteggiamento. Una prova evidente che nessuna accusa avrebbe retto al vaglio dei fatti, altrimenti non avrebbero usato una bambina come strumento di pressione. Ma non ci sono riusciti». Quello che volevano erano dei nomi, altri politici. « Ma questo avrebbe significato tradire la verità - aggiunge Kaili -. Questo dice molto sulla debolezza della loro accusa. Mentre io ho scelto la verità».

I nomi di Kaili e Giorgi non figuravano tra i sospettati nei documenti iniziali. Una situazione che è cambiata nel momento in cui Panzeri ha iniziato a parlare. «Inizialmente aveva dichiarato di non aver corrotto nessuno. Solo dopo l’arresto di sua moglie e di sua figlia ha subito una pressione enorme e ha iniziato a mentire anche contro due politici. Ha accusato inizialmente dei colleghi belgi, ma poi è stato spinto a fare altri nomi — tutto documentato negli atti. Due mesi dopo - spiega Kaili -, mentre negoziava per ottenere benefici come “collaboratore”, ha fatto i nomi di diversi italiani e il mio, con dichiarazioni incoerenti e smentite da fatti, intercettazioni e documenti ufficiali. Nonostante ciò, la procura ha ignorato ogni contraddizione evidente».

Il rapporto finale dei servizi segreti, però, spiegava chiaramente che né Kaili né Giorgi erano considerati parte della presunta rete criminale. «Si sono concentrati sull’attività del presidente dell’Ong, ma hanno deciso di presentare fondi e donazioni destinati a Fight Impunity come un presunto scandalo di corruzione internazionale. È evidente che si è voluto costruire a tavolino un caso, forse per motivi geopolitici o interessi interni - sottolinea Giorgi -. La vera domanda è: chi ha tratto vantaggio da tutto questo?». Ma soprattutto, fin dove si sono spinti i Servizi? Kaili ha denunciato di essere stata spiata e che le opinioni politiche dell’intero Parlamento siano state monitorate. «Il Belgio ha utilizzato i suoi servizi segreti per infiltrarsi nel cuore del Parlamento europeo racconta l’ex vicepresidente -, monitorando riunioni e comunicazioni interne, in violazione del diritto Ue, come documentato negli atti. Come si è visto anche di recente, le attività politiche degli eurodeputati vengono sorvegliate senza autorizzazione della Corte. Continuano a violare la sovranità dell’istituzione e la libertà di opinione politica. È una vera minaccia per la democrazia europea ». La polizia, inoltre, ha partecipato ad alcune riunioni di Commissione, situazione che l’ex vicepresidente della Commissione Affari costituzionali, Giuliano Pisapia, ha definito una “aggressione brutale alla democrazia europea”. « È stata una violazione senza precedenti dell’autonomia del Parlamento - aggiunge Kaili -. In un contesto normale, un’intrusione del genere avrebbe scatenato uno scandalo istituzionale. Ma in questo caso, tutti sono rimasti immobili — forse per paura o per convenienza politica. Questo silenzio complice pesa ancora oggi. E sono delusa dal fatto che il nostro Parlamento europeo si sia lasciato ingabbiare da riforme populiste che hanno limitato la libertà dei suoi membri, basandosi su fughe di notizie distorte. Ecco perché rifiutano di celebrare il fatto che l’ipotesi di corruzione non è mai esistita. Un atto paradossale».

Certo, ai media giustizialisti interessa sempre lo stesso argomento: quei borsoni pieni di soldi, che da soli, in un’ottica semplicistica, bastano a dimostrare la colpevolezza. Ma dalle intercettazioni, chiarisce Kaili, è chiaro «che il denaro apparteneva a Panzeri per le sue attività di consulenza e per l’Ong. Avrebbero dovuto trovarsi a casa sua ed essere dichiarati di conseguenza. Le operazioni umanitarie spesso non passano per il circuito bancario, proprio per proteggere chi si cerca di aiutare — l’evacuazione di donne o attivisti dall’Afghanistan, per esempio. Se la verità fosse stata davvero una priorità, il caso non sarebbe stato chiamato subito “Qatargate” dalla procura. Ma le foto del contante sono state usate per creare una presunzione di colpevolezza, funzionale alla narrativa mediatica». I media, d’altronde, hanno giocato sporco, scrivendo, tra le altre cose, perfino che Giorgi aveva accusato sua moglie. Ma era falso. Come è potuto accadere? «Poiché non c’erano prove contro di noi - spiega Giorgi -, hanno tentato di ottenere un patteggiamento seminando divisioni. Sono state diffuse notizie false per esercitare pressione psicologica e pubblica. Ma io non ho mai accusato mia moglie, né nessun altro. La mia testimonianza scritta, presente nel fascicolo, mette fine a qualsiasi speculazione».

Ma raccontare la verità non è stato semplice: gli indagati, infatti, hanno persino subito un bavaglio, un divieto assoluto - esteso anche agli avvocati - di comunicare coi giornali. Il tutto mentre i media continuavano a pubblicare documenti riservati. E per Giorgi ci sarebbe una regia dietro queste fughe sistematiche. «La dinamica era evidente. Esisteva un canale di comunicazione immediato tra la procura e in particolare il giornale belga Le Soir, volto a influenzare l’opinione pubblica e creare una presunzione di colpevolezza, costruendo un processo mediatico contro di noi. Le informazioni distorte filtravano sempre in una sola direzione - spiega -. Ma quando i grandi media internazionali hanno iniziato a raccontare anche l’altra versione dei fatti e a chiederci interviste, ci è stato imposto il silenzio sotto minaccia di arresto. Questa non è giustizia — è controllo della narrazione». Ma non si tratta dell’unica stranezza: anche il diritto di difesa è stato messo a dura prova, con «dichiarazioni estorte in assenza dell’avvocato - sottolinea l’ex assistente parlamentare -, minacce, abuso della custodia cautelare, parzialità dei giudici, violazioni del segreto tra avvocato e cliente, negazione del diritto al silenzio, omissione di prove fondamentali — solo per citarne alcune. Tutti questi elementi sono ora al vaglio della Corte d’Appello. In queste condizioni, un processo equo è impossibile».

Proprio per tentare di ristabilire la parità tra accusa e difesa Giorgi ha fatto qualcosa di radicale: registrare il capo degli investigatori che smentiva le accuse. «Quando l’ispettore capo si è presentato a casa mia per restituirmi un dispositivo, ho trovato strano che un funzionario di quel livello si occupasse di una cosa così banale. Così ho registrato la conversazione con il mio cellulare. Quello che ho sentito è stato scioccante e anche coraggioso: usando il plurale, ha detto che non credevano a una parola delle dichiarazioni del “pentito” Panzeri, ha criticato apertamente i giudici, le istituzioni e i politici, e mi ha detto che dovevo essere pazzo ad avere fiducia nella giustizia. Ironia della sorte, sua moglie è una magistrata - sottolinea Giorgi -. La reazione della procura è stata altrettanto assurda: hanno sostenuto che l’audio fosse stato generato con l’intelligenza artificiale — nonostante la perizia tecnica e le ammissioni dello stesso ispettore provassero il contrario. È un altro tentativo maldestro di insabbiare la verità, e ora è tutto agli atti». Un tentativo maldestro, come quello di usare Kaili come un trofeo, come un mezzo per un fine. Che però non è stato raggiunto. «I miei avvocati lo credono fermamente - sottolinea -. Serviva un volto per giustificare un’operazione costruita più per uno show mediatico che per finalità giudiziarie.

Il mio ruolo istituzionale, la mia visibilità, il mio genere e la mia nazionalità mi hanno resa un bersaglio. Ma non permetterò a questo stereotipo di definirmi. La libertà di come reagire all’ingiustizia non può mai essere tolta. Le donne sono abituate ogni giorno a lottare contro chi le sottovaluta o le considera inferiori. Non è una questione personale, è una battaglia per chi è stato schiacciato da un sistema ingiusto, finché la legge non sarà ripristinata e le riforme attuate».

Ora, due anni dopo, lo scandalo rimane a galleggiare, mentre nessun giudice sembra voler portare avanti questo caso. E ciò, conclude Giorgi, «perché questo fascicolo è diventato radioattivo. In due anni e mezzo, il giudice istruttore è stato cambiato quattro volte, il procuratore ha abbandonato il caso dopo l’audio che smentisce il “pentito”, e l’ispettore è stato sanzionato e rimosso — purtroppo, invece di essere premiato per aver detto la verità. Nessuno vuole rimanere col cerino in mano. A questo punto, non si tratta più di accertare la verità, ma di salvare la faccia. Quello che doveva essere il Qatargate è ormai diventato il Belgiangate».