«È cambiato tutto. Nulla è più come prima. A cominciare dal Codice Vassalli- Pisapia dell’ 89: non è mai più stato com’era prima di Mani pulite. E la politica non si è mai ripresa, da allora. Anzi non c’è. Non esiste. Ci sono i curatori fallimentari, i tecnici, figure estranee ai partiti che fanno le riforme altrimenti impossibili». Con Filippo Facci si potrebbe trascorrere un pomeriggio intero, anzi più di uno, a parlare del ’ 93, e a spiegare l’eredità mortifera lasciata da Mani pulite. E ci vorrebbero molte pagine d’intervista, perché da giovane cronista giudiziario dell’Avanti!, Facci, oggi commentatore di Libero fu tra i pochissimi giornalisti italiani a non accettare il “verbo” del Pool, e a cercare di raccontarlo diversamente. A breve pubblicherà un libro, per celebrare in anticipo i trent’anni dall’inchiesta spartiacque della democrazia italiana.

Tiziana Parenti ci ha raccontato che nel ’ 93 i pm di Milano non escludevano un impegno diretto della magistratura in politica.

Distinguiamo: Di Pietro si è impegnato eccome, lo sappiamo. Agli altri è bastato condizionare persino le scelte legislative, con una forza superiore al Parlamento, ma senza lasciare la toga. Fanno fede due casi clamorosi: la pronuncia sul decreto Conso e l’altolà televisivo al decreto Biondi.

Era il consenso popolare a incoraggiare certe forzature?

Secondo Di Pietro c’era il rischio che “l’acqua non arrivasse più al mulino”, cioè che le confessioni si interrompessero e che non si potesse andare avanti. E tutto era possibile in virtù dell’insofferenza verso le forze del pentapartito che si radica nell’opinione pubblica dopo l’ 89, si manifesta con le elezioni del ’ 92, favorisce la particolare durezza di Mani pulite con il Psi prima e con la Dc poi. Lo stesso Borrelli confessò che il Pool sceglieva determinati obiettivi secondo le possibilità del momento. Altro che obbligatorietà dell’azione penale. E poi certo, il consenso esaltante spinse anche a osare di più, agli editti televisivi, e a fare giurisprudenza.

A cosa ti riferisci?

Mani pulite ha innescato un effetto a catena capace di rovesciare il Codice Vassalli- Pisapia nel suo contrario. C’è un prima e un dopo. Al Pool di Milano, per Mario Chiesa, servirono flagranza di reato, banconote segnate, un registratore, le confessioni di Luca Magni, si provò a usare senza successo persino una telecamera. Ma fino ad allora era quasi sempre così non solo per quei pm. Pochi mesi dopo, per procedere a un arresto, divenne sufficiente che qualcuno vomitasse mezzo nome e che quel nome finisse opportunamente sui giornali. A quel punto andavi di manette, nessuno protestava e per i gip era tutto a posto.

Mani pulite è stata lo spartiacque, per gli eccessi sulla custodia cautelare?

Lo è stata rispetto a una serie di stravolgimenti ad ampio raggio del Codice dell’ 89, avvalorati in seguito da varie Corti d’appello fino alla Consulta. Se il perno del processo accusatorio consiste nel dibattimento davanti al giudice terzo che si svolge nella parità tra le parti, secondo il principio dell’oralità nella formazione della prova, con Mani pulite arriviamo al punto che i verbali estorti in galera diventano prove, e se poi in Aula il teste non conferma tutto, finisce indagato per calunnia. A trent’anni da quell’inchiesta non siamo ancora fermi a quel punto ma i segni lasciati dal 1993 si vedono ancora.

Politica e magistratura sono tuttora due incompiute per via di quel trauma?

È un discorso che richiederebbe molte ore. Possiamo partire da alcune certezze. Dopo l’ 89 tutto il mondo è cambiato, ovunque la tecnocrazia si è intrecciata al populismo, ma in nessun altro posto il cambiamento è venuto da una rivoluzione giudiziaria. Avvenne perché con la fine della guerra fredda cambiò anche la considerazione che gli Stati Uniti e in generale le forze occidentali avevano del nostro Paese. Cossiga lo previde con largo anticipo in un paio di interviste rilasciate in Inghilterra e Francia, in Italia gli diedero del matto.

Ma nonostante i presupposti che ho ricordato, Mani pulite non fu conseguenza di un complotto. All’arresto di Mario Chiesa, i pm di Milano mai avrebbero immaginato cosa sarebbe avvenuto. Pensavano di chiudere tutto per direttissima. Poi Borrelli ammise che per la loro indagine la svolta venne dal risultato elettorale dell’aprile ’ 92. Cambiarono gli equilibri, la magistratura fiutò l’insofferenza e processò un intero sistema. Il gip Italo Ghitti ammise: il nostro obiettivo non era giudicare singole persone ma abbattere un sistema.

Al punto che tra i pm maturò l’idea di dover fare politica in prima persona?

Non ne ebbero bisogno, al di là di quanto avvenne in seguito con Di Pietro. Fare politica vuol dire occupare uno spazio lasciato da altri, dalla politica appunto. Assumere un potere che travalica quello del Parlamento, come avvenne con i decreti Conso e Biondi. Borrelli stesso ammise che in quei casi si verificò uno sconfinamento.

Obbligatorietà dell’azione penale: nel ’ 92 è caduto anche quel principio?

Indagarono sul Pds, certo. Dopo Tiziana Parenti, lo fece Paolo Ielo. Ma farlo nel 1993, dopo aver prima puntato Craxi e il Psi, fu una scelta dirimente, e discrezionale. Non basta, per spiegarla, la maggiore difficoltà nel ricostruire i finanziamenti illeciti del Pci. Certamente quel metodo discrezionale ha cambiato l’orientamento della magistratura requirente. L’imprinting è rimasto, l’obbligatorietà è una barzelletta.

Berlusconi ha ereditato un po’ dell’antipolitica di Mani pulite?

Anche con una certa arroganza, se vuoi, io credo di essere tra i massimi esperti della storia di quegli anni, non foss’altro per l’immenso archivio che tuttora ne conservo, e posso dire che Berlusconi è un punto chiave dell’antipolitica italiana. Aveva compreso subito quanto fosse cambiato il vento: nel ’ 92 sconsigliò a Craxi di tentare la scalata alla presidenza del Consiglio, e gli disse di puntare casomai al Colle. Poi nelle convention di Publitalia cominciò a fare discorsi diversi dal solito, a dire che se ci fossero stati al governo pochi imprenditori come lui, avrebbero cambiato il Paese.

Oggi basta un guardasigilli di grande levatura come Marta Cartabia a dire che la politica ha riguadagnato il primato della democrazia in Italia?

Vuoi riformare la giustizia? Devi sapere che con la magistratura non c’è possibilità di mediazione. Nessuno collabora alla sottrazione del potere che detiene. Perché dovrebbero farlo i magistrati? La politica, da allora, dal 1992, non solo non è mai più tornata davvero autorevole: semplicemente non c’è. Gli unici che funzionano sono appunto i tecnici, i curatori fallimentari, che per definizione non mediano: semplicemente tagliano i rami secchi. Se pensiamo di cambiare la magistratura e il suo rapporto con la politica, non c’è altra strada che a farlo sia chi con la politica non c’entra nulla.